David Bowie è e sempre sarà

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Entrando nel MAMbo di Bologna sono uscita dal lutto per David Bowie. Solo allora mi sono accorta che è durato più o meno sei mesi, circa il doppio di quello che si porta per nonni e cognati, leggo su un sito di galateo funebre. Ma non l’ho fatto apposta, è stato un processo del tutto spontaneo dovuto al fatto che quando mi capitava un qualsiasi riferimento a Bowie, un video, un articolo, un amico che commentava l’accaduto, andavo in tilt come quando mi chiedono di fare una divisione a due cifre e non volevo saperne nulla. Un vero rifiuto. E non quello che si oppone alla morte di una persona ma come per la fine di un’idea, che poi è quella su cui si basa l’universo: il concetto di evoluzione. Credo che avrei provato una sensazione simile in occasione della morte di Frank Zappa che però è avvenuta quando ancora le gioie dell’universo zappiano non mi erano note. Senza deviazione dalla norma il progresso non è possibile, diceva Frank. Senza sperimentazione non c’è evoluzione. Si rimane lì sul divano nella comfort zone di sempre che serve solo a stabilizzare l’umore.

In un punto particolarmente affollato del MAMbo, circa a metà del percorso della mostra, da un piccolo schermo una attempata signora parla della sua personale esperienza bowiana al tempo di Ziggy Stardust. Dice una frase tipo una cosa simile non l’avevo mai vista, ha un’espressione vispetta e zampilla quel friccicore delle “prime volte”. Penso che Bowie fosse questo, una continua prima volta, una delle manifestazioni più brillanti, lungimiranti e affascinanti sulle scene degli ultimi quarant’anni del ciclo vitale delle cose che finiscono perché poi ne cominciano altre nuove.


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Nella mostra, il caleidoscopio delle mille identità viene illustrato attraverso un percorso di fasi tematiche, più che cronologiche, con annesse digressioni, ripetizioni, sovrapposizioni. L’approccio non è esattamente lineare ma consente di risalire agli albori dell’infinita produzione di Bowie, ricostruire una rete di interessi e fare piena immersione nelle fonti di ispirazione. Senza dubbio è una mostra ricchissima di materiale ed è sicuramente familiare anche per chi conosce poco l’onorato servizio che Bowie ha reso al mondo. La cosa sorprendente è che ci si emoziona intimamente anche se in realtà non viene tracciato il profilo di un uomo ma quello dell’artista. Si parla poco della sua privata in termini espliciti, più che altro vengono ricordati alcuni dati ma in funzione delle scelte pubbliche. Sembra assurdo dirlo guardando le immagini di David con gli zatteroni e la tutina monospalla di Yamamoto ma tutto questo ha un sapore british, in linea con la compostezza e il rigore di un professionista ma anche con il contegno aristocratico di un “Duca”. Any Fuss, nessun clamore, come aveva chiesto poco prima di andarsene perché voleva essere cremato senza cerimonia funebre.

Arrivata sulla soglia della penultima sala ho avuto la sensazione che non poteva finire così, che quel viaggio di circa due ore e mezza non mi sarebbe bastato. Dal centro della stanza dove si incrociano dei divanetti comodi solo per chi ha le gambe molto lunghe o molto corte, ho lanciato un’occhiata intorno e mi sono trovata circondata da manichini in costume e macroschermi che proiettavano sequenze di concerti. Mi sono seduta tutta storta, ho alzato il volume delle Sennheseir a disposizione dei visitatori e in un fulmine mi sono riconciliata coi divani, con la conclusione di quella mattinata, con il rodimento di non poter fare foto, con il gelo dell’aria condizionata sparata al massimo, con la vita intera fatta di spizzichi e bocconi ben oltre i limiti delle mura del museo. Di fronte a uno che ha regalato al mondo la sua visione speciale dagli occhi diversi.


Quando lui è più fico di te

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Tom Waits al Tropicana Motel – foto qui


Sul podio della mia lista dei desideri c’è la voce “vivere sei mesi in un albergo come una rockstar”. Penso a un posticino sul genere Chelsea Hotel – pace all’anima sua -, il leggendario, dove si sono ispirati, amati e drogati alcuni degli artisti e intellettuali che hanno fatto la storia del novecento. Ma ancora più del Chelsea, mi figuro avventrice della sua versione balneare: Il Tropicana Motel di Los Angeles sul Santa Monica Boulevard, “il Trop” per gli amici. Ora fa parte di una scialba catena senz’anima ma nei ruggenti anni sessanta e settanta di certo non ci andavi con la famiglia. Era dotato di un classico diner in stile americano, il Duke’s Coffee Shop, cugino esotico e se possibile più trucido del nostro Roxy Bar, amatissimo dai suoi clienti affezionati. Ma soprattutto disponeva del luogo dove vorremmo fare cose da vergognarsi anche solo a pensarle: la piscina con le mattonelle nere. Che di colori, in realtà, deve averne visti a nastro.


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Joan Jett al Tropicana Motel – foto qui


Io l’ho sempre immaginata così. Esterno notte 1977, rumore di qualche auto che passa lì davanti sul boulevard. Al centro, a farsi la nuotatina di mezzanotte nella piscina esistenzialista c’è Rickie Lee Jones. Pensate a un pezzo di bionda, sui 24, ugola d’oro a un passo dal successo stellare che da lì a un anno le avrebbe portato il suo primo singolo. In quel periodo faceva coppia fissa con tale Tom Waits. Gliel’aveva presentato il musicista Chuck E Weiss che lavorava come cameriere al Troubadour Club, da quelle parti, dove lei si esibiva. Quel primo fortunato singolo nasceva da questo strano triangolo: Chuck E’s in Love dice Tom a Rickie dopo una telefonata in cui Chuck gli racconta delle sue ultime prodezze amorose. Nel 1978 i due erano stati la meglio coppia del cucuzzaro. Nella copertina di Blue Valentine di Tom Waits, i due pomicioni sul cofano dell’auto sono loro, sullo sfondo Chuck a reggere il moccolo.



Rickie era una bomba. Basta vederla fulgida sull’album d’esordio che porta il suo nome, basco rosso di traverso (se non lo metto non mi riconoscono per strada, avrebbe detto) e il cigarillo come in una vecchia foto di suo padre, rivoluzionaria, femme fatale, bohémienne ribelle che da Chicago aveva già peregrinato per metà delle comunità hippy della California. Quella sera in piscina deve aver pensato qualcosa tipo: ammazza se mi ha detto bene. Lo racconta lei stessa in varie interviste. “Vivevamo dal lato ‘jazz’ della vita”. Improvvisazione e beata gioventù. Ma può succedere che sei nei 15 minuti di fama della tua vita e vai nel pallone perché non sai come gestire le cose. Poi, se conosci uno che pensi sia più fico di te son dolori. Ai tempi del loro incontro Tom era già al suo sesto disco, bello e dannato, una divinità agli occhi di Rickie. Ma lei le carte le aveva tutte. Rickie Lee Jones è un album notevole, registrato con dei fuoriclasse (Randy Newman, Jeff Porcaro), jazz qua, folk là e una vena ruffiana nel gusto retro. Invece è finita in caciara, troppi eccessi, troppe insicurezze.

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Rickie Lee Jones, foto qui

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Tom, Rickie e Chuck – foto qui


Il secondo album Pirates del 1981 è una ferita aperta dal passaggio del ciclone Tom. Quando la storia finisce lui è il Lucky Guy, quello che non si fa domande su cosa starà facendo lei, che non ha lo sguardo luccicante che ha lei quando parla di lui. She scares me to death, dichiarava Tom… L’atmosfera è straziante, il pianoforte, l’immagine di lui che ha già preso un’altra strada. Però Rickie è una che non molla, fatto il pianto si riparte. I’ll cry a while / But when I wake up / Tomorrow is a new day / I’m a lucky guy. Domani è un nuovo giorno.

 

Ti ho prestato l’ultimo di Erykah Badu

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Erykah Badu – foto qui

No Amy Winehouse, non si prestano i cd di Erykah Badu a un invertebrato che di buono ha solo la maglietta dei Beastie Boys (Beasties tee). Quante volte avrei voluto dirtelo ascoltando l’attacco di You sent me flying (Lent you Outsidaz and my new Badu…). Il problema era che lui si credeva rapper navigato mentre lei ascoltava il nu soul. Problema per lui ovviamente, perché le due cose non sono mica inconciliabili. Me lo immagino sotto flusso di coscienza biascicare che non potete più vedervi perché gliel’hanno detto i Public Enemy in sogno. Ma per fare un esempio con date alla mano, quando parlava di cd nuovi forse Amy si riferiva a Worldwide Underground (del 2003), che contiene un’Ode all’Hip Hop con tanto di video galvanizzante in cui Erykah ripercorre un po’ di tappe della storia del movimento. Stanotte glielo andasse a riferire il tipo ai Public Enemy. Se poi Amy intendesse riferirsi ad altri album non credo cambierebbe molto perché hip hop e neo soul – o nu soul, la stessa cosa – sono figli della stessa madre, diverse evoluzioni della “musica dell’anima”.



Proprio Erykah Badu ha consacrato il marchio nu soul debuttando nel 1997 con l’album Baduizm, miscuglio di R&B e soul che riproponeva tematiche classiche della musica afroamericana di sempre, cioè a grandissime linee, libertà, amore, fede. Il successivo Mama’s Gun avrebbe alzato ancora di più l’asticella, ampliando il raggio dei riferimenti tematici e musicali e raccontando storie di riscatto personale e sociale in chiave anche più jazz e funk che in precedenza. My dress ain’t cost nothin’ but seven dollars / But I made it fly, shit now I’ll tell you why / ‘Cause I’m cleva  (Cleva). Prego astenersi perditempo, qui si studia da regine.

A scrivere la storia del genere, prima di lei c’era stato solo l’apripista D’Angelo con l’album Brown Sugar, altro esordio da campioni. Poi una carriera in cui ha creato poche cose ma veramente buone, fino all’ultimo Black Messiah del 2014 che è piaciuto sia al pubblico sia alla critica. Personalmente però ho un debole per Vodooo, secondo dei suoi tre album. Primo, perché dentro c’è mezza discografia di Prince. Secondo, per un motivo strettamente musicologico: basta guardare il video di Untitled (How does it feel) per capirlo. “Una delle poche prove dell’esistenza di Dio” se proprio dobbiamo parlare di fede.



A completare una triade ideale del nu soul c’è la coreggente Lauryn Hill– anche se nei fatti di artisti se ne contano parecchi, e da ripescare con soddisfazioni, come la Alicia Keys di Songs in A Minor se volete concedervi qualche minuto di pelle d’oca. The Miseducation of Lauryn Hill, un titolo un programma. Un chiaro invito ad attivare testa e cuore in un processo di rieducazione personale e culturale solo apparentemente edulcorato. I wrote these words for everyone who struggles in their youth / Who won’t accept deception, instead of what is truth (Everything is Everything)Era il 1998 ed era un altro debutto eccellente, siamo ancora lì. In questo caso però si trattava di un esordio da solista perché Lauryn aveva già un passato artisticamente denso con i Fugees, in un percorso a fasi hip hop e soul invertito rispetto a quello di Erykah Badu. E guarda un po’ i fatti strani della vita, i Fugees hanno battezzato gli Outsidaz ospitandoli nel loro album The Score. Magari si saranno rincontrati tutti da Amy Winehouse, dove speriamo siano tornati i cd prestati a quello con la maglietta dei Beastie.