6 canzoni di attiviste

da Akua Naru, The world is listening

Meshell Ndegeocello

Bassista, cantante, attivista per i diritti di donne e diversity da una ventina d’anni. Dichiaratamente queer, di recente ha detto al New York Times che in quanto persona di colore, ogni giorno che passa equivale a una riaffermazione della propria identità. Da uno spettacolo teatrale del 2016 ha creato un sito web, The Gospel of James Baldwin, dedicato all’autore afroamericano, una specie di tool kit contenente testi, musica e materiale visuale con lo scopo di ispirare e sostenere chi si batte per la giustizia. Il suo album Bitter del 1999 è una pietra miliare (il pezzo Faithfull è stato inserito nella colonna sonora della serie Netflix di Spike Lee She’s Got have It).

Akua Naru

Cresciuta nel Connecticut, ora stabile in Europa ma sempre nomade dentro. È una delle voci più potenti della diaspora africana negli Stati Uniti e porta in giro per le università del mondo i suoi studi, soprattutto legati all’universo femminile (focus del suo ultimo album The Blackest Joy, del 2018). Hip hop e jazz sono la sua cifra ma si muove agilmente nel solco della tradizione di soul, slam poetry e ritmica afro. Ha creato The Keeper Project, un archivio multimediale sul ruolo delle donne nere nella nascita ed evoluzione della cultura hip hop.

Helin Bölek

Attivista e cantante turca di origine curda, parte del gruppo folk Grup Yorum. È morta nell’aprile del 2020, a soli 28 anni, dopo 288 giorni di sciopero della fame iniziato per denunciare la persecuzione politica in Turchia e il veto posto dal governo sui concerti del gruppo, accusato di appartenere a un’organizzazione terroristica. In 35 anni di attività, Grup Yourum sono stati la voce della canzone di protesta della sinistra del paese, cantando in curdo, turco, arabo e circasso, lingue parlate in Anatolia.

Awkwafina

All’anagrafe Nora Lum, è una rapper e attrice statunitense di padre cinese e madre sudcoreana. Ha vinto un Golden Globe per il ruolo da protagonista del film del 2019 Farewell, di Lulu Wang. Nel 2016 è stata una delle quattro figure di rapper al centro del documentario Bad Rap, un’indagine sull’hip hop di origine asiatica negli Stati Uniti. La battaglia per aggiudicarsi uno spazio del rap mainstream americano di Awkwafina si muove su un doppio fronte: come donna e di origine asiatica.

Ana Tijoux

Classe 1977, come recita la canzone omonima che l’ha resa nota. È nata in Francia da genitori cileni esuli dopo il colpo di Stato del 1973 e con il suo rap porta avanti da sempre la lotta contro dittature politiche ed economiche. Il singolo del 2020, Antifadance, ribadisce a piena voce la resistenza attraverso l’arte: Ante el autoritarismo, la imposición, la discriminación, el odio implacable al otro, volvemos a retomar con toda su fuerza la palabra Arte.

Fatoumata Diawara

Per tutti è solamente Fatou, lo dice anche il suo album di debutto. Nata negli anni ’80 in Costa d’Avorio in una famiglia maliana, a soli 15 anni viene notata da un regista francese e diventa attrice di cinema e teatro. Sfugge a un matrimonio combinato e si ferma in Francia dove impara a suonare la chitarra. In Europa sente un po’ di libertà sulla pelle ma compone canzoni in lingua bambara per non dimenticare le sue radici e testimoniare violenze e abusi praticati sulle donne in tante zone dell’Africa, come la mutilazione genitale femminile cantata in Boloko.

Live a Milano – Febbraio 2019

Gennaio è stato moscio ma ora ci riprendiamo. Ecco una selezione di 6 concerti per febbraio. Rock the winter ♠♣♥♦

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Nina Simone, Wasabi


Khruangbin – Mercoledì 6, Santeria Social Club

Texani, psichedelici, da serata miciona


Jimi Tenor – Giovedì 7, Biko

Polistrumentista, jazz-funk-sperimentale, finlandese


Deaf Kaki Chumpy – Venerdì 8, Rosetum Jazz Festival 

18 giovani musicisti, made in Milano, gratis


Pussy Riot – Mercoledì 13, Legend Club

Collettivo punk rock, guerrilla girls, dalla Russia


Neneh Cherry – Mercoledì 27, Circolo Magnolia

Figlia del trombettista jazz Don Cherry, prodotta da Four Tet, No Filter


C’mon Tigre – Giovedì 28, Santeria Social Club

Mediterranei, sintetici, visuali

 

Musica + Libri #6 “Il cavo della mano” di PJ Harvey & Seamus Murphy

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PJ Harvey & Seamus Murphy, Il cavo della mano, La nave di Teseo, 2017


Nel 2016 PJ Harvey ha pubblicato The Hope Six Demolition Project, un album di spirito corale e resistenza civile. Hope VI, infatti, è un infelice progetto dell’amministrazione di Washington varato nel ’92 per demolire degli alloggi popolari di periferia in vista di nuovi nuclei commerciali e abitativi. In parte, Il cavo della mano condivide l’ispirazione con quel disco, essendo entrambi i lavori nati dalla necessità di testimonianza della realtà e di ciò che certe scelte economiche e politiche rappresentano per la comunità. Mentre The Hope Six si esprimeva in musica, Il cavo lo fa attraverso le poesie della cantante insieme alle fotografie di Seamus Murphy, già regista di alcuni video tratti da The Hope Six

In breve, questa raccolta contiene gli appunti di viaggio di tre tappe percorse dai due artisti tra il 2011 e il 2014: Kosovo, Afghanistan e Washington DC. Strade polverose, squarci nei muri, colori consumati, carcasse abbandonate, oggetti arrugginiti. Ma anche contrasti dell’opulenza che l’Occidente ha generato, tracce di guerra e scenari di sopravvivenza. Alcuni componimenti sono fulminei, come Anacostia:

un minuscolo sole rosso / come un fanale posteriore / lungo il cavalcavia

Il cavo della mano, titolo dal sapore aspro, è quello che mendica sotto la pioggia, oltrepassato con indifferenza dalla gente che cammina fissando il proprio cellulare (La mano). L’invasore è sempre lì, dietro l’angolo della strada, pronto a depredare e cancellare. E noi aspettiamo, e seguiamo uno stato delle cose continuamente in bilico tra disperazione e speranza, abituati, ormai, ma pietrificati. Mentre la notte vigila con la sua mezzaluna (Adhan), assistiamo alla consapevolezza che certe cose non torneranno mai più… è un processo normale ma fa un po’ d’impressione (Pietà per la vecchia strada).

Tutto è raccontato attraverso una varietà di scelte stilistiche che spaziano dal distico (2 versi) alla sestina (6 versi), dai versi liberi a quelli in rima alternata (nell’originale, a fronte in questa edizione). Ad amplificare le vibrazioni delle parole ci sono le immagini di Seamus Murphy, fotografo di guerra di origini irlandesi, che coglie dolcezza e orrore in un medesimo clic. I tanti scatti qui pubblicati sono il frutto di circa vent’anni di lavoro.

 

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Mitrovica, giugno 1999

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Kabul, febbraio 2012

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Washington DC, aprile 2006

Musica + Libri #5 – “Aretha Franklin. La Regina del Soul” di Gabriele Antonucci

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Gabriele Antonucci, “Aretha Franklin. La Regina del Soul” , Vololibero Edizioni, 2016


È agile e incalzante questo piccolo libro sulla gigantesca Aretha Franklin, regina del soul e paladina dei diritti civili che ha rivoluzionato il mondo del gospel. Un talento unico che ha graffiato la vita con la voce, trasformando il dolore in arte, perennemente in bilico tra successi ed esaurimenti nervosi, eccessi e sopravvivenza. Gabriele Antonucci, giornalista e critico musicale, srotola una narrazione in pillole che racconta pubblico e privato in un unico intreccio di emozioni ed episodi memorabili. Nonostante talvolta il ritmo subisca un’accelerazione che comprime la successione degli eventi, il godimento della lettura è assicurato.

La carrellata biografica è serrata, sin dall’esordio sulle scene guidato dal padre, il carismatico reverendo C.L. Franklin, figura di riferimento dei movimenti di lotta per i diritti al fianco di Martin Luther King e pioniere della contaminazione tra gospel e blues. Esibendosi durante le funzioni religiose del reverendo, Aretha inizia a ricevere i primi consensi del pubblico, formato, tra gli altri, da personaggi tutt’altro che trascurabili come Ella Fitzgerald, Duke Ellington e Sam Cooke. Da allora, Aretha viene catapultata nel “music business”, passando per le più prestigiose etichette musicali e da un manager all’altro. Quando nel 1972 dà alle stampe l’album Amazing Grace, Aretha è una celebrità appena trentenne che ne ha già viste di tutti i colori. “Ciò che Kind of Blue di Miles Davis rappresentò per il jazz, Amazing Grace lo fu per il gospel.” commenta Antonucci. Le registrazioni del disco nella New Temple Baptist Missionary Church di Los Angeles sono diventate un film diretto da Sidney Pollack, un documento impressionante di uno dei momenti più brillanti della carriera di Aretha.



Tra disgrazie personali e trionfi pubblici, insicurezze e fobie, Antonucci illustra come Aretha Franklin abbia attraversato più di mezzo secolo di storia della musica sperimentando dal jazz all’r&b e arrivando a scalare, seppur con qualche malumore, le classifiche pop. Fino a una delle ultime apparizioni pubbliche, nel 2015, che riassume bene la traccia indelebile che questa artista pazzesca ha impresso nel firmamento musicale. Quando durante i Kennedy Center Honors, di fronte a un’esibizione da brividi di A Natural Woman, tra il gesto del presidente Obama di asciugarsi una lacrima e l’incontenibile entusiasmo della sala, l’etichetta di una serata istituzionale andava a farsi benedire. God bless Aretha.  


Musica + Libri #3 – Girl in a Band di Kim Gordon

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Kim Gordon, Girl in a Band, 2015

Ho letto questo libro a più riprese senza mai perdere il filo, riadattandomi facilmente al punto in cui l’avevo lasciato. L’autobiografia della ‘ragazza nel gruppo’ non passa inosservata all’immaginario del pubblico appassionato di cultura musicale e, in generale, curioso della scena alternativa americana degli anni ’80 e ’90. Per chi la conosce già almeno un po’, Kim Gordon è l’emblema femminile del post punk, ‘la’ bassista del noise. In queste pagine, però, si trova di più rispetto rispetto alle etichette: c’è il racconto di una vita dedicata all’arte, dispiegata a 360 gradi tra danza, arti visive, musica.  Anche se a volte si intreccia a mode e mainstream in una contaminazione reciproca che non sempre dà frutti succosi (ma su questo sospendo il giudizio). Una cosa che ho apprezzato di Girl in a Band è lo spirito interventista che lo pervade, nel senso costruttivo, si intende. Della serie l’importante non è solo esserci ma anche provarci. 

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New York, 1980

Già durante gli anni della scuola superiore negli ambienti della middle class di Los Angeles, la vita di Kim è una rincorsa alle emozioni forti. Mentre si barcamena nel difficile rapporto con l’amato fratello Keller, affetto da schizofrenia, l’adolescente Kim non perde occasione per promuovere iniziative di piccola avanguardia contro gli stereotipi. Con il fidanzato dell’epoca si esibisce in coreografie ‘narrative’ sulle canzoni di Frank Zappa, artisticamente goffe ma azzeccate per smuovere le coscienze. Negli anni, Kim si scaglia contro l’empowerment femminile, il concetto di ‘potenziamento’ delle donne che alla fine non è altro che un’aspirazione di matrice maschile. Ma le donne non sono già abbastanza potenti secondo la loro natura? – suggerisce Kim. L’imitazione del modello maschile cosa può portare di buono? Il capitolo sull’infelice e breve vita di Karen Carpenter (cantante e batterista del duo The Carpenters) è toccante e veicola appassionatamente i concetti chiave della visione di Kim Gordon sulla questione femminile.

Pari determinazione è evidente nelle righe dedicate alla demolizione dell’ex marito Thurston Moore, che serpeggiano già dalle prime pagine del libro ma si rivelano apertamente verso la fine. Non ci sono sconti né santi protettori per la hall of fame. Le rockstar si incasinano come noi e se vengono ferite si vendicano allo stesso modo, anzi peggio, perché la loro piazza pubblica è molto più grande e crudele.

Della storia tra Kim e Thurston, comunque, emerge il ritratto affascinante di una vita di aneddoti che coinvolgono tanti personaggi della scena di quegli anni, da Kurt Cobain a Spike Jones e Sofia Coppola ai Beastie Boys, per dirne alcuni. È strano percepire da parte di Kim lo stesso grado di tenerezza per sua figlia Coco che per Kurt Cobain. Anche perché la tenerezza non è esattamente di casa in queste pagine, anzi. Il taglio del racconto è ruvido, spesso severo. 

Qualche giorno fa un tizio in metropolitana, vedendomi immersa nella lettura, mi ha sorriso un po’ piccato: Certo lei è fredda in questo libro e che brutta fine… Vero, ho detto io, ma a volte ci sono cose più importanti, più urgenti… (Di quello che gli altri si aspettano da noi, ho pensato ma a quel punto ero già su un altro binario).

If you want me to
I will be the one
That is always good
And you’ll love me too
But you’ll never know
What I feel inside
That I’m really bad
Little trouble girl 

Ragazze, facciamo la storia?

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Foto qui

Che sollievo, ogni tanto la ruota gira e anche per chi in genere non conosce i riflettori arriva il momento di vivere un quarto d’ora di gloria. Questa volta è andata bene per Tornareccio, un paese nella provincia di Chieti, in Abruzzo. Non ci speravo l’anno scorso quando scrivevo un articolo a proposito della Girls Rock Camp Alliance, una vibrante iniziativa nata negli Stati Uniti una decina di anni fa con l’intento di creare una rete di campi scuola musicali per ragazze. Alla base, l’idea che l’educazione musicale sia uno strumento per favorire l’autostima, la collaborazione e il coraggio in un momento tanto significativo e delicato della vita come gli anni tra i 10 e i 13, quando vorresti spaccare il mondo ma hai appena finito di imparare ad allacciarti le scarpe. Ebbene il campo finalmente si farà anche in Italia grazie all’intraprendenza di Hilary Binder, musicista e promotrice culturale di Washington DC che ha già fatto questa esperienza nella Repubblica Ceca e ha l’aria di sapersi muovere. Hilary è solare e visionaria e l’idea di una iniziativa di questo valore in un luogo dove in genere arrivano meno possibilità è entusiasmante. 

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Nella settimana del Lavinia Rock Camp (dal 3 all’8 luglio, durante il quale, in sintesi, le partecipanti impareranno le basi per formare una band, scrivere una canzone ed esibirsi) terrò un piccolo seminario sul giornalismo musicale femminile, di cui non si parla mai abbastanza. Forse anche perché di fatto c’è meno materia di cui parlare, essendo il mondo della scrittura critica musicale prevalentemente maschile e giusto un filo maschilista. E forse perché alla materia che c’è non viene dato lo spazio che meriterebbe. Ma non mi risulta che le donne siano scarse in quanto a caratteristiche essenziali per esercitare la critica o il giornalismo musicale: competenze, sensibilità, capacità comunicative, profondità di pensiero. Non sono una fanatica delle distinzioni di genere a tutti i costi, mi piacerebbe che il mondo fosse una palla morbida in cui ondeggiare al ritmo di di One Love, One Heart, ma come non prendere atto che le differenze esistono e allora ciò che di buono si può fare è esaltarle. Sono molto felice di fare parte di questa avventura.
Chiudo con le parole giustissime usate da Daniele Cassandro in un articolo per Internazionale sulla giornalista inglese Sylvia Patterson e in generale sulla scrittura delle donne in ambito musicale.

Ogni autrice ha la sua storia, la sua età, la sua cultura e il suo stile ma in comune vedo alcuni elementi di base. La liberatoria assenza di quella pedanteria enciclopedica che rende sgradevole buona parte del classico giornalismo musicale. E poi una capacità di far entrare nella loro scrittura il dato autobiografico, l’aneddoto personale, in certi casi anche una forma di lessico privato, senza mai cadere nell’irrilevanza e mantenendo salda una lucida visione d’insieme.
Le iscrizioni al Lavinia Rock Camp sono ancora aperte, tutte le informazioni le trovate qui, non perdete l’occasione di segnalare questa possibilità a qualche giovane rocker che vuole spaccare il mondo divertendosi.

Quando lui è più fico di te

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Tom Waits al Tropicana Motel – foto qui


Sul podio della mia lista dei desideri c’è la voce “vivere sei mesi in un albergo come una rockstar”. Penso a un posticino sul genere Chelsea Hotel – pace all’anima sua -, il leggendario, dove si sono ispirati, amati e drogati alcuni degli artisti e intellettuali che hanno fatto la storia del novecento. Ma ancora più del Chelsea, mi figuro avventrice della sua versione balneare: Il Tropicana Motel di Los Angeles sul Santa Monica Boulevard, “il Trop” per gli amici. Ora fa parte di una scialba catena senz’anima ma nei ruggenti anni sessanta e settanta di certo non ci andavi con la famiglia. Era dotato di un classico diner in stile americano, il Duke’s Coffee Shop, cugino esotico e se possibile più trucido del nostro Roxy Bar, amatissimo dai suoi clienti affezionati. Ma soprattutto disponeva del luogo dove vorremmo fare cose da vergognarsi anche solo a pensarle: la piscina con le mattonelle nere. Che di colori, in realtà, deve averne visti a nastro.


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Joan Jett al Tropicana Motel – foto qui


Io l’ho sempre immaginata così. Esterno notte 1977, rumore di qualche auto che passa lì davanti sul boulevard. Al centro, a farsi la nuotatina di mezzanotte nella piscina esistenzialista c’è Rickie Lee Jones. Pensate a un pezzo di bionda, sui 24, ugola d’oro a un passo dal successo stellare che da lì a un anno le avrebbe portato il suo primo singolo. In quel periodo faceva coppia fissa con tale Tom Waits. Gliel’aveva presentato il musicista Chuck E Weiss che lavorava come cameriere al Troubadour Club, da quelle parti, dove lei si esibiva. Quel primo fortunato singolo nasceva da questo strano triangolo: Chuck E’s in Love dice Tom a Rickie dopo una telefonata in cui Chuck gli racconta delle sue ultime prodezze amorose. Nel 1978 i due erano stati la meglio coppia del cucuzzaro. Nella copertina di Blue Valentine di Tom Waits, i due pomicioni sul cofano dell’auto sono loro, sullo sfondo Chuck a reggere il moccolo.



Rickie era una bomba. Basta vederla fulgida sull’album d’esordio che porta il suo nome, basco rosso di traverso (se non lo metto non mi riconoscono per strada, avrebbe detto) e il cigarillo come in una vecchia foto di suo padre, rivoluzionaria, femme fatale, bohémienne ribelle che da Chicago aveva già peregrinato per metà delle comunità hippy della California. Quella sera in piscina deve aver pensato qualcosa tipo: ammazza se mi ha detto bene. Lo racconta lei stessa in varie interviste. “Vivevamo dal lato ‘jazz’ della vita”. Improvvisazione e beata gioventù. Ma può succedere che sei nei 15 minuti di fama della tua vita e vai nel pallone perché non sai come gestire le cose. Poi, se conosci uno che pensi sia più fico di te son dolori. Ai tempi del loro incontro Tom era già al suo sesto disco, bello e dannato, una divinità agli occhi di Rickie. Ma lei le carte le aveva tutte. Rickie Lee Jones è un album notevole, registrato con dei fuoriclasse (Randy Newman, Jeff Porcaro), jazz qua, folk là e una vena ruffiana nel gusto retro. Invece è finita in caciara, troppi eccessi, troppe insicurezze.

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Rickie Lee Jones, foto qui

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Tom, Rickie e Chuck – foto qui


Il secondo album Pirates del 1981 è una ferita aperta dal passaggio del ciclone Tom. Quando la storia finisce lui è il Lucky Guy, quello che non si fa domande su cosa starà facendo lei, che non ha lo sguardo luccicante che ha lei quando parla di lui. She scares me to death, dichiarava Tom… L’atmosfera è straziante, il pianoforte, l’immagine di lui che ha già preso un’altra strada. Però Rickie è una che non molla, fatto il pianto si riparte. I’ll cry a while / But when I wake up / Tomorrow is a new day / I’m a lucky guy. Domani è un nuovo giorno.

 

Ti ho prestato l’ultimo di Erykah Badu

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Erykah Badu – foto qui

No Amy Winehouse, non si prestano i cd di Erykah Badu a un invertebrato che di buono ha solo la maglietta dei Beastie Boys (Beasties tee). Quante volte avrei voluto dirtelo ascoltando l’attacco di You sent me flying (Lent you Outsidaz and my new Badu…). Il problema era che lui si credeva rapper navigato mentre lei ascoltava il nu soul. Problema per lui ovviamente, perché le due cose non sono mica inconciliabili. Me lo immagino sotto flusso di coscienza biascicare che non potete più vedervi perché gliel’hanno detto i Public Enemy in sogno. Ma per fare un esempio con date alla mano, quando parlava di cd nuovi forse Amy si riferiva a Worldwide Underground (del 2003), che contiene un’Ode all’Hip Hop con tanto di video galvanizzante in cui Erykah ripercorre un po’ di tappe della storia del movimento. Stanotte glielo andasse a riferire il tipo ai Public Enemy. Se poi Amy intendesse riferirsi ad altri album non credo cambierebbe molto perché hip hop e neo soul – o nu soul, la stessa cosa – sono figli della stessa madre, diverse evoluzioni della “musica dell’anima”.



Proprio Erykah Badu ha consacrato il marchio nu soul debuttando nel 1997 con l’album Baduizm, miscuglio di R&B e soul che riproponeva tematiche classiche della musica afroamericana di sempre, cioè a grandissime linee, libertà, amore, fede. Il successivo Mama’s Gun avrebbe alzato ancora di più l’asticella, ampliando il raggio dei riferimenti tematici e musicali e raccontando storie di riscatto personale e sociale in chiave anche più jazz e funk che in precedenza. My dress ain’t cost nothin’ but seven dollars / But I made it fly, shit now I’ll tell you why / ‘Cause I’m cleva  (Cleva). Prego astenersi perditempo, qui si studia da regine.

A scrivere la storia del genere, prima di lei c’era stato solo l’apripista D’Angelo con l’album Brown Sugar, altro esordio da campioni. Poi una carriera in cui ha creato poche cose ma veramente buone, fino all’ultimo Black Messiah del 2014 che è piaciuto sia al pubblico sia alla critica. Personalmente però ho un debole per Vodooo, secondo dei suoi tre album. Primo, perché dentro c’è mezza discografia di Prince. Secondo, per un motivo strettamente musicologico: basta guardare il video di Untitled (How does it feel) per capirlo. “Una delle poche prove dell’esistenza di Dio” se proprio dobbiamo parlare di fede.



A completare una triade ideale del nu soul c’è la coreggente Lauryn Hill– anche se nei fatti di artisti se ne contano parecchi, e da ripescare con soddisfazioni, come la Alicia Keys di Songs in A Minor se volete concedervi qualche minuto di pelle d’oca. The Miseducation of Lauryn Hill, un titolo un programma. Un chiaro invito ad attivare testa e cuore in un processo di rieducazione personale e culturale solo apparentemente edulcorato. I wrote these words for everyone who struggles in their youth / Who won’t accept deception, instead of what is truth (Everything is Everything)Era il 1998 ed era un altro debutto eccellente, siamo ancora lì. In questo caso però si trattava di un esordio da solista perché Lauryn aveva già un passato artisticamente denso con i Fugees, in un percorso a fasi hip hop e soul invertito rispetto a quello di Erykah Badu. E guarda un po’ i fatti strani della vita, i Fugees hanno battezzato gli Outsidaz ospitandoli nel loro album The Score. Magari si saranno rincontrati tutti da Amy Winehouse, dove speriamo siano tornati i cd prestati a quello con la maglietta dei Beastie.



People from Ibiza

Le uniche 24 ore della mia vita che ho passato a Ibiza ho preso un’insolazione con brividi e vomito per una notte intera ma so per certo che c’è gente che ci va e fa tutte quelle cose per cui l’isola delle Baleari è famosa nel mondo: si diverte. Ricordo le foto di amici appena tornati dal viaggio ho paura a contare quanti anni fa. Scatti di scena di Almodovar: vestiti catarifragenti, occhialoni a specchio, creste, una specie di omaggio al tormentone culto del 1984 People from Ibiza di Sandy Marton  che solo ora scopro non essere festivalbaregno bensì croato. Such a crazy band like my friends from wonderland cantava con credibilità Sandy dentro un camice da chirurgo.


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Sandy Marton – foto qui


Circa quindici anni più tardi, nel 1999, nei Club di Ibiza spopola un altro tormentone: Sing it Back del duo anglo irlandese Moloko, nel remix del produttore house tedesco Boris Dlugosch (che ha messo mano anche a L’ombelico del mondo ma pure ai Daft Punk). Non esattamente il mio genere ma ammetto di subire il fascino di Róisín Murphy in tutte le sue manifestazioni. Quel successo in quel contesto era scritto nel destino. Róisín e Mark Braydon si erano conosciuti nel clima friccicarello di una festa, sebbene lo scenario fosse Sheffield, che di allegria ne sprizza come il 2 novembre. Lei lo abborda chiedendogli Ti piace il mio maglione? A lui evidentemente garba parecchio perché i due si fidanzano e la frase di Róisín diventa il titolo del loro primo album, Do you like my tight sweater? E per restare in clima festaiolo, scelgono di chiamarsi Moloko, come la bevanda a base di latte e anfetamine preferita da Alex in Arancia meccanica.



Sing it Back fa parte del secondo album dei Moloko, I am not a doctor del 1998. Il disco nel complesso non è una pietra miliare – come anche gli altri in realtà – e i due si caratterizzano come band dal singolo forte. Ma sanno bene come amalgamare elettronica, house e trip hop per creare prodotti dance di qualità e Róisín diventa sempre più brava. Tanto da mollare Mark come fidanzato e come partner artistico. Nel 2005 esordisce da solista con il raffinato, e non proprio commercialissimo, Ruby Blue. A distanza di 10 anni è arrivata al quarto album, Take Her Up To Monto, in uscita il prossimo luglio. Il primo singolo, bellissimo, è Ten Miles High e la regia del video è della stessa Róisín.



Calcio e rock’n’roll

 

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A 7 anni giocavo a calcio per rimorchiare nella squadra maschile della scuola elementare. Ero così calata nella parte che le mie lacrime sgorgavano tra il poster di Falcão sul letto e Grazie Roma di Venditti nel giradischi. Poi la fede calcistica è diventata fede musicale e il senso di appartenenza a una squadra si è irreversibilmente sfaldato. Non ho avuto la fortuna di incappare nel gruppo rock del liceo ma mi sarebbe piaciuto essere la girl in a band, per citare Kim Gordon. Non avrei disdegnato neanche fare parte di un gruppo al femminile ma le occasioni erano scarse, anche perché le ragazze generalmente facevano altro. Sarebbe stato bello fare qualcosa insieme a qualcuno e crederci. La cosa in sé mica è un problema, ora che sono adulta. Ma allora il senso di appartenenza valeva di più.


 

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Quando ho letto che Kathleeen Hanna delle Bikini Kill era nel comitato scientifico della Girls Rock Camp Foundation insieme a Beth Ditto dei Gossip mi sono gasata. La Girls Rock Camp Foundation fa parte del circuito Girls Rock Camp Alliance nato nel 2007 a Portland, Oregon ma divenuto poi un network internazionale che include anche stati europei come Germania, Francia, Finlandia, Austria. La missione dell’organizzazione non profit è rafforzare il coraggio e l’autostima delle ragazze attraverso l’educazione musicale, valorizzando il rispetto, la collaborazione e le diversità. Il manifesto è più o meno questo:

We value the power of music as a means to create personal and social change;
We value efforts that actively expand opportunities for girls and women;
We value positive approaches to fighting sexism;
We value integrity, honesty and respect;
We value appropriate sharing of resources, cooperation, and collaboration;
We value using our collective voice to further our mission;
We value diversity.

L’organizzazione dei campi varia da paese a paese – ecco per esempio l’esperienza dell’Iowa – ma tutti condividono l’insegnamento delle basi concrete per diventare musiciste come suonare uno strumento, scrivere una canzone, esibirsi. E in tutti si osserva uno dei capisaldi della filosofia Riot Grrrl: non devi essere tecnicamente perfetta ma cercare di essere coraggiosa.

L’anno scorso, per raccogliere fondi, la Girls Rock Camp Foundation ha creato il Record Remake Project, un progetto fotografico in cui le giovani campers si sono cimentate nella riproduzione di copertine di album celebri. La piccola Debbie Harry di Parallel Lines dei Blondie è Ava, la nipote di Beth Ditto.


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In Italia non mi risulta si sia ancora attivato nessuno per creare la nostra versione di questa iniziativa. Perché? Se le ragazze si divertono e hanno la possibilità di esprimersi, l’occasione è preziosa. La procedura per iniziare un campo è questa. Chi potrebbe essere nel comitato scientifico? Roberta Sammarelli dei Verdena? Le Motorama (raro caso di donne che NON suonano il basso)? Nel frattempo facciamoci ispirare da 6 canzoni di ragazze rock’n’roll.

Girls Like Us – The Julie Ruin


A Raw Youth – Le Butcherettes


Romance – Wild Flag


Pedestrian at Best – Courtney Barnett


Guilty – Honey Bane


Apple Pie – The Cleopatras