Non tutto il 2016 è arrivato per nuocere. Ho assemblato una selezione di canzoni uscite quest’anno alle quali ho pensato come modesto antidoto al lato oscuro degli ultimi mesi, per non dimenticare mai di restare con i piedi per terra ma la testa tra le nuvole.
L’ho provata in situazioni varie: in casa cucinando, facendo il bagno con le bolle, fissando il muro in cerca di risposte e fuori in giro in bici quando non avevo fretta. Credo che funzionerà anche durante il viaggio in treno per andare dai miei a Natale. Ci sono alcune delle cose buone che ho ascoltato nel 2016 ma che non sono per forza le migliori in assoluto e non sono tutte (per esempio ho lasciato fuori molti ‘grandi’ o la musica italiana, che quest’anno è stata particolarmente generosa). Le tracce sono 24 come il giorno della vigilia, perché ‘il meglio deve ancora venire’. A buoni intenditori poche parole… Buon ascolto.
Da qualche tempo ho l’impressione di avere saltato a piè pari la fase della maturità e di essere piombata nell’antiquariato. Mi è venuto il sospetto quando ho iniziato a soffermarmi sull’espressione una via di mezzo tra. Me ne servo fluidamente io per prima, mi sguscia fuori senza filtri specie quando parlo di musicisti: Kutiman è una via di mezzo tra Black Keys e Alabama Shake. I Suuns sono una via di mezzo tra Radiohead e Battles. Gli Haelos sono una via di mezzo tra Portishead e XX. Ryley Walker è una via di mezzo tra John Martyn e Geoff Farina. Ma cosa vorrà dire questa tendenza al funambolismo, sarà un bene o un male?
Quando l’anno scorso, il 2015, la ventennale webzine indipendente americana Pitchfork è stata comprata dal gruppo editoriale Condé Nast io mi sono francamente accorata. La consideravo un simbolo, una delle manifestazioni più significative della generazione Lo-Fi , figlia della filosofia punk del Do It Yourself, cioè ‘fattelo da solo’. Un po’ per mancanza di fondi un po’ perché così sarà sicuramente come vuoi senza necessariamente rispondere alle logiche del mercato di massa. Ecco qui, ho pensato, anche questi si sono messi in mezzo tra. Non sono né una fan accanita né tantomeno della prima ora di Pitchfork ma negli anni l’ho consultata parecchio nelle sue sezioni Best New Music e Reviews. Mi è capitato di riconoscermi nelle sue scelte o di trovarle esagerate o ingiustificate. Alla notizia della vendita, però, ho sentito il brivido del passaggio di epoche. Quella dimensione sgangherata e appassionata del ciclostilato 2.0 stava cedendo il passo al mutuo da pagare. Per inciso, continuo a fare le mie consultazioni delle stesse sezioni pitchforkiane ma mi mancano quelle scelte ingiustificate, quei giudizi galvanizzati che erano un po’ piezz’e core. Sono ancora affetta dall’idea che la musica si scelga con la pancia prima ancora che facendo la media delle stellette assegnate dalle recensioni o seguendo gli algoritmi.
Quest’anno poi, il 2016, si è aggiunto un altro tassello al compromesso storico della cultura indipendente: la catena californiana Amoeba Music ha venduto il negozio di dischi di Hollywood su Sunset Boulevard a un mega gruppo immobiliare intenzionato a costruirci una torre di vetro. Su twitter, la squadra di Ameoba ha comunicato al suo pubblico che ci vorrà qualche anno prima che la sostituzione abbia effettivamente luogo e tra l’altro sembra che il progetto della torre con tanto di piscina sul tetto (si può trovare in rete) sia solo una delle ipotesi per la riconversione dell’edificio. Personalmente ho pensato che Joni Mitchell avrebbe esclamato Don’t it always seem to go that you don’t know what you’ve got till it’s gone / They paved paradise and put up a parking lot, come fece in Big Yellow Taxi, una delle più belle canzoni ecologiste della storia.