Quando lui è più fico di te

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Tom Waits al Tropicana Motel – foto qui


Sul podio della mia lista dei desideri c’è la voce “vivere sei mesi in un albergo come una rockstar”. Penso a un posticino sul genere Chelsea Hotel – pace all’anima sua -, il leggendario, dove si sono ispirati, amati e drogati alcuni degli artisti e intellettuali che hanno fatto la storia del novecento. Ma ancora più del Chelsea, mi figuro avventrice della sua versione balneare: Il Tropicana Motel di Los Angeles sul Santa Monica Boulevard, “il Trop” per gli amici. Ora fa parte di una scialba catena senz’anima ma nei ruggenti anni sessanta e settanta di certo non ci andavi con la famiglia. Era dotato di un classico diner in stile americano, il Duke’s Coffee Shop, cugino esotico e se possibile più trucido del nostro Roxy Bar, amatissimo dai suoi clienti affezionati. Ma soprattutto disponeva del luogo dove vorremmo fare cose da vergognarsi anche solo a pensarle: la piscina con le mattonelle nere. Che di colori, in realtà, deve averne visti a nastro.


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Joan Jett al Tropicana Motel – foto qui


Io l’ho sempre immaginata così. Esterno notte 1977, rumore di qualche auto che passa lì davanti sul boulevard. Al centro, a farsi la nuotatina di mezzanotte nella piscina esistenzialista c’è Rickie Lee Jones. Pensate a un pezzo di bionda, sui 24, ugola d’oro a un passo dal successo stellare che da lì a un anno le avrebbe portato il suo primo singolo. In quel periodo faceva coppia fissa con tale Tom Waits. Gliel’aveva presentato il musicista Chuck E Weiss che lavorava come cameriere al Troubadour Club, da quelle parti, dove lei si esibiva. Quel primo fortunato singolo nasceva da questo strano triangolo: Chuck E’s in Love dice Tom a Rickie dopo una telefonata in cui Chuck gli racconta delle sue ultime prodezze amorose. Nel 1978 i due erano stati la meglio coppia del cucuzzaro. Nella copertina di Blue Valentine di Tom Waits, i due pomicioni sul cofano dell’auto sono loro, sullo sfondo Chuck a reggere il moccolo.



Rickie era una bomba. Basta vederla fulgida sull’album d’esordio che porta il suo nome, basco rosso di traverso (se non lo metto non mi riconoscono per strada, avrebbe detto) e il cigarillo come in una vecchia foto di suo padre, rivoluzionaria, femme fatale, bohémienne ribelle che da Chicago aveva già peregrinato per metà delle comunità hippy della California. Quella sera in piscina deve aver pensato qualcosa tipo: ammazza se mi ha detto bene. Lo racconta lei stessa in varie interviste. “Vivevamo dal lato ‘jazz’ della vita”. Improvvisazione e beata gioventù. Ma può succedere che sei nei 15 minuti di fama della tua vita e vai nel pallone perché non sai come gestire le cose. Poi, se conosci uno che pensi sia più fico di te son dolori. Ai tempi del loro incontro Tom era già al suo sesto disco, bello e dannato, una divinità agli occhi di Rickie. Ma lei le carte le aveva tutte. Rickie Lee Jones è un album notevole, registrato con dei fuoriclasse (Randy Newman, Jeff Porcaro), jazz qua, folk là e una vena ruffiana nel gusto retro. Invece è finita in caciara, troppi eccessi, troppe insicurezze.

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Rickie Lee Jones, foto qui

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Tom, Rickie e Chuck – foto qui


Il secondo album Pirates del 1981 è una ferita aperta dal passaggio del ciclone Tom. Quando la storia finisce lui è il Lucky Guy, quello che non si fa domande su cosa starà facendo lei, che non ha lo sguardo luccicante che ha lei quando parla di lui. She scares me to death, dichiarava Tom… L’atmosfera è straziante, il pianoforte, l’immagine di lui che ha già preso un’altra strada. Però Rickie è una che non molla, fatto il pianto si riparte. I’ll cry a while / But when I wake up / Tomorrow is a new day / I’m a lucky guy. Domani è un nuovo giorno.

 

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