Fallisci meglio

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Il braccio del tennista Wawrinka – foto qui

Vi è già capitato di imbattervi nella citazione di Samuel Beckett “Fallisci ancora. Fallisci meglio”?↓ Una frase dall’impatto dirompente che mi fa subito immedesimare ed esclamare devotamente sì Samuel, lo farò, imparerò dai miei sbagli.

Ora, nonostante la passione che ho per Beckett, un uomo che ha segnato la mia adolescenza con mezzi più corroboranti dell’hot yoga di cui dispongo ora (a un certo punto ho anche immaginato di chiamare i miei figli Didi e Gogo citando Aspettando Godot ma per fortuna ho solo due cani di peluche e cartapesta), so di non averci capito veramente molto di quell’universo nonsense. Vuoi anche per l’allora giovane età, in cui nonostante lo spleen delle difficoltà adolescenziali, non sono mai riuscita a empatizzare davvero con un visione così cupa delle cose, con tutto il domani che ancora attendeva. Non che ora sia tanto lucida ma grazie a uno sguardo più allenato e servendomi di approfondimenti fatti da studiosi seri, mi rendo conto che la citazione di Beckett è usata in genere con grande slancio ottimistico. Invece nel testo da cui è tratta non c’è traccia di incoraggiamento a fare meglio, anzi, se è possibile la situazione si mette ancora peggio che nella carriera intera del guru irlandese: si è solo a un passo dalla fine che tutto pacifica e sublima. Olé.

Faccio questa divagazione oltre le mie possibilità perché di recente sono incappata spesso in situazioni di fraintendimenti, anche in ambito musicale. Mi riferisco per esempio a Here Comes Your Man dei Pixies, orecchiabile e apparentemente scanzonato pop che a leggere il testo, invece, parla di quei poveri diavoli in cerca di lavoro che all’inizio del novecento morivano sui treni californiani dei pendolari durante i terremoti.

Ma penso soprattutto a quello splendore di canzone che è Aguas de Março che da questa parte dell’emisfero significa l’immediato richiamo all’inizio della bella stagione e all’idea di rinascita dopo l’inverno tempestoso. Marzo pazzerello, sole e ombrello, e però intanto ci scrolliamo di dosso quella mosceria della vita passata a bere tisane calde. Invece no, non è così perché nel marzo del 1972, quando ha scritto questa canzone, Antonio Carlos Jobim era a casa sua in Brasile, dove il clima è tropicale e marzo coincide con l’inizio della stagione delle piogge. Cioè come l’inizio di novembre in questa parte di emisfero. In più ‘O maestro’ era abbastanza acciaccato e il medico gli aveva ordinato assoluto riposo. Daltronde é o fim do caminho è un verso inequivocabile. La fine della fatica, forse un po’ come intendeva Samuel. Anche se poi invece Tom stava toppando alla grande con tutto quel senso lugubre di fine imminente perché è campato ancora 25 anni, ha fatto altri figli con una nuova moglie e si è buttato in nuove felici collaborazioni artistiche. Ma allora, non scherziamo, il mondo non è forse solo una gigantesca palla da tennis che rimbalza qua e là da interpretare come caspita ci pare?

↑ “Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better”, da Worstward Ho

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