Quando Malcolm X vestiva alla zootie

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Chi ha bazzicato un po’ il pop degli anni ’80 forse ricorderà il cantante americano Kid Creole. In compagnia delle bionde Coconuts, si contorceva in sgargianti esibizioni vestito da zootie, sgambettando alla maniera di Cab Calloway che di quel movimento degli anni ’30 e ’40 fu l’icona. Calloway aveva musicato il cartoon Betty Boop ed era apparso in forma smagliante nel film del ’43 Stormy Weather.



Nel libro Ribelli con stile, prontuario di un secolo di mode e stili delle culture alternative, Matteo Guarnaccia illustra le linee guida del fenomeno. “La scena zootie inaugura in maniera esteticamente aggressiva la visibilità urbana della cultura black. L’afroamericano esce dal quadretto rassicurante del paesaggio americano, non è più lo straccione con gli abiti da contadino del Sud (salopette sbottonata e maglia della salute a maniche lunghe di lana bucata) o il cameriere con i bottoni lustri. È diventato un pazzo stravagante elegantone, con abiti realizzati appositamente per lui da veri sarti. È una sfida decisa all’estetica dell’uomo bianco, conformista nelle idee e nell’abbigliamento, fedele all’etica del lavoro, con la sua avversione per gli ornamenti e il colore. È un modo per rinegoziare con la cultura dominante la propria dimensione espressiva.”

Questioni estetiche, dunque, ma non solo, perché le mode culturali, in quanto tali, confluiscono in scelte di vita di ampio raggio, includendo l’arte e, spesso, soprattutto la musica. All’epoca jazz e swing impazzavano nelle sale da ballo che molto spesso erano animate da grandi orchestre composte da bianchi che suonavano per bianchi. Non tutte le sere, però, ed era improbabile che un’orchestra di elementi bianchi potesse far ballare una platea di neri. “La musica non conosce altro linguaggio che il suo e la musica segue il ritmo e non i dettami della razza” riferisce Guarnaccia da un articolo di allora pubblicato da Billboard. Ma, prosegue l’autore, “Le grandi orchestre continuano elegantemente a declinare sul palco quella suprema forma di arte afroamericana che si chiama jazz… È un corso accelerato di fisicità e sensualità, materie che la cultura ‘superiore’ WASP non contempla nei suoi programmi”.


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Nell’imponente autobiografia di Malcolm X, la testimonianza diretta di quelle serate febbrili è un vortice in cui è inevitabile farsi trascinare. Erano gli anni ’40 e Malcolm, non ancora ventenne, faceva il lustrascarpe alla Roseland Ballroom di Boston dove “Alcuni degli orchestrali venivano su alla toilette verso le otto e si facevano lustrare le scarpe prima di andare al lavoro. Duke Ellington, Count Basie, Lionel Hampton, Cootie Williams, Jimmie Lunceford erano solo alcuni tra quelli che vennero a sedersi sulla mia sedia da lustrascarpe. Facevo schioccare lo straccio con un rumore che ricordava i fuochi artificiali.” Malcolm fu tanto zelante da mettere da parte in fretta buona parte della cifra necessaria (il resto a credito) per comprare uno zoot suit, termine slang degli anni ’30 usato per indicare un abito parecchio sopra le righe che si indossava rigorosamente abbinato a stiratura dei capelli impregnati di brillantina alla goccia. “Dopo avermi preso le misure, il commesso tolse da una fila di abiti appesi uno zoot suit davvero incredibile: i pantaloni di un blu chiaro erano larghissimi al ginocchio e si restringevano ad angolo fino alle rovescie, mentre la giacca, attillata alla vita, mi scendeva fin sotto i ginocchi. Il commesso mi disse che il negozio mi avrebbe regalato una cintola di pelle marrone con sulla fibbia la lettera L, iniziale del mio cognome. Mi disse poi che dovevo comprarmi anche un cappello e così io feci, scegliendone uno blu con la penna infilata nella fascia altissima… Mi ero indebitato per sempre.”

Durò fino all’arrivo della guerra, quando i tessuti vennero razionati e gli zooties afroamericani e latinos, che intanto erano stati bollati come antipatriottici (ci fu anche una zoot riot) e subivano attacchi da parte dei militari, dovettero adattarsi a un profilo estetico più contenuto.

Chi non lavora non fa l’amore?

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Alle 19.45 di un venerdì l’ascensore dell’ufficio puzza di mandarino per colpa tua. Mentre sei in discesa libera verso la vita vera ecco una fermata improvvisa, le porte si aprono e sulle note dei santi che stai elencando entra il viscidone del settimo piano, quello che è sufficiente che tu non sia uno scaldabagno. Con lo sguardo scorri il gessato dall’alto in giù fino ai mocassini mosci. Ma come ti sei ridotta? Ha qualcosa di quell’amico dei tuoi della casa al mare di vent’anni fa, quello del golfino salmone sulle spalle. In mezzo a una carrellata di banalità a un certo punto infila un “facciamo un pezzo di strada insieme?”. Preghi di non incrociare anima viva sul tragitto e in un attimo sei già carne da ribaltabile (per lui ancora attualissimi). Se ci fosse la filodiffusione nel mondo a questo punto partirebbe Let’s stick together di Bryan Ferry, l’unica stella del firmamento dandy all’altezza di un colpaccio da pianobar. Che resti qui, nell’attraversamento di questi sette piani: a te quel vermone piace.

Let’s stick together nasce però con una allure più castigata rispetto alle sue vite successive, passando più o meno dallo status di inno celebrativo del sacro vincolo del matrimonio a manifesto del primo maggio. Appare per la prima volta nel ’62 nella versione del bluesman Wilbert Harrison, con scarsissimo successo di classifica. Il testo, in realtà lo stesso usato poi da Ferry nel 1976, parlava di “doveri coniugali” con un risvolto patetico che chiamava in causa i figli e il loro “bene” You know we made a vow / To leave one another never / Now if you’re stuck for a while consider our child / How can it be happy without its ma and pa. 

Una manciata di anni più tardi, nel 1969, qualcuno nell’entourage di Harrison deve avere pensato che ci si poteva riprovare proponendo un testo rivisitato con un messaggio più paragnosta. Il mondo stava cambiando e la strategia vincente si rivelò quella di cavalcare l’onda delle rivoluzioni culturali all’insegna di ideali comunitari. Di questa rinnovata chiave di lettura ne approfittarono anche i californiani Canned Heat con la loro versione blues-rock che divenne una hit della stagione. Con l’esortazione Lavoriamo insieme si faceva riferimento davvero a braccia da rubare ai campi, alla condivisione di valori, all’unione (morale) che fa la forza.

Quando poi nel 1976 fu la volta dello sparviero Bryan invece era ormai tempo degli ammiccamenti del glam rock. Qualcuno del suo entourage deve aver pensato di ripristinare il testo originale che puntava sull’intesa di coppia e di dare spazio a un sassofono invece che a chitarre e armoniche, più in linea con i tempi. Nel video della canzone Ferry interpretava i panni dello sposino mandrillone assieme a una felina Jerry Hall, all’epoca sua compagna. L’aveva incontrata per lo shooting dell’album Siren dei Roxy Music. Ma non durò molto, giusto il tempo di far arrivare Mick Jagger che invece i doveri coniugali li ha potuti rivendicare davvero per una decina d’anni. 

Non vedi che lei non ci sta?

Chi l’avrebbe mai detto che nel 2016 la vita avrebbe tenuto in serbo per noi l’apericena, il momento della fusione a perdere di due concetti già belli e completi nella loro individualità: l’aperitivo prima e la cena dopo. Sarà che abbiamo fatto tutto e siamo nell’era dei post, non ci restano che nuove, raccapriccianti, combo. Ma spesso è proprio all’apericena che può essere reperibile un certo tipo di esemplare piacione moderno. Ci vuole far credere di essere stato trascinato, infatti lui ha altri mille eventi molto meglio, però, già che c’è, arraffa nachos e insalata di farro e ammicca pure alle gambe del tavolo. Intanto voi, che sul serio siete stati portati di peso in quel locale, assistete alla scena scivolando nell’evidenza: non esistono più i piacioni di una volta. E peggio ancora, non esiste più neanche il sottofondo musicale all’altezza. Passi il farro, ma sopravviverete al remix buddha bar del best of Mengoni?

Invece, quando una trentina di anni fa si faceva sul serio, e si andava in discoteca o al pianobar, il piacione alfa esisteva davvero. Si chiamava Giuseppe Chierchia, alias Pino D’Angiò, made in Pompei. Nei primi anni ottanta viene buttato sul palco in camicia sbottonata su pelo increspato e sigaretta accesa tra le dita. Ha il riccetto malandrino e canta un rap mandrillo dal titolo Ma quale idea, il cui incipit L’ho beccata in discoteca con lo sguardo da serpente / Io mi sono avvicinato lei già non capiva niente è manifesto programmatico. Cronaca di un rimorchio, in sostanza. Riassumendo: lui la aggancia in discoteca, la raggira a squalo e com’è come non è, riesce a portarsela a casa. Ma quando, ingrifatissimo, arriva al dunque, un coro greco che anticipa la tragedia imminente gli fa lo spiegone: ué Pino sveglia, lei non ci sta. Secondo noi se continui a ballare è meglio.



Anche se la serata va in bianco, il disco diventa un successo internazionale che vende ben dodici milioni di copie nel mondo. Pino è disinvolto e brillante, è uno che nelle interviste scandisce il tempo schioccando le dita, è maestro di acchiappo. A scanso di equivoci il lato B del singolo viene chiamato Lezioni d’amore. La sua fama di cantautore piacione arriva fino a Mina, per la quale qualche anno più tardi si cimenta nell’abbordo da supermercato scrivendo la canzone Ma chi è quello lì, il cui video vanta una strepitosa partecipazione di Monica Vitti. Poi, nel 2005 è il gruppo hip hop romano Flaminio Maphia a omaggiarlo reinterpretando Ma quale idea in chiave disco-romanesca, con il titolo abbreviato in Che idea.



Nonostante questi attestati di stima, forse non è ancora stato fatto abbastanza in patria per rendere merito a tanto patrimonio nostrano. Perché magari in Italia Pino non l’abbiamo capito davvero, mentre all’estero Ma quale idea è entrata a fare parte dell’olimpo delle hit funk, quando nel 2003 è stata inserita nel DVD World Tribute to the Funk, compendio enciclopedico della Sony Music. Ora però, proprio in questo 2016 che quell’esordio folgorante compie 35 anni, e che Pino ha appena pubblicato un nuovo album – Dagli Italiani a Beethoven – sarà il caso di rimediare. Più che un suggerimento è un imperativo: Balla!

People from Ibiza

Le uniche 24 ore della mia vita che ho passato a Ibiza ho preso un’insolazione con brividi e vomito per una notte intera ma so per certo che c’è gente che ci va e fa tutte quelle cose per cui l’isola delle Baleari è famosa nel mondo: si diverte. Ricordo le foto di amici appena tornati dal viaggio ho paura a contare quanti anni fa. Scatti di scena di Almodovar: vestiti catarifragenti, occhialoni a specchio, creste, una specie di omaggio al tormentone culto del 1984 People from Ibiza di Sandy Marton  che solo ora scopro non essere festivalbaregno bensì croato. Such a crazy band like my friends from wonderland cantava con credibilità Sandy dentro un camice da chirurgo.


SANDY MARTON

Sandy Marton – foto qui


Circa quindici anni più tardi, nel 1999, nei Club di Ibiza spopola un altro tormentone: Sing it Back del duo anglo irlandese Moloko, nel remix del produttore house tedesco Boris Dlugosch (che ha messo mano anche a L’ombelico del mondo ma pure ai Daft Punk). Non esattamente il mio genere ma ammetto di subire il fascino di Róisín Murphy in tutte le sue manifestazioni. Quel successo in quel contesto era scritto nel destino. Róisín e Mark Braydon si erano conosciuti nel clima friccicarello di una festa, sebbene lo scenario fosse Sheffield, che di allegria ne sprizza come il 2 novembre. Lei lo abborda chiedendogli Ti piace il mio maglione? A lui evidentemente garba parecchio perché i due si fidanzano e la frase di Róisín diventa il titolo del loro primo album, Do you like my tight sweater? E per restare in clima festaiolo, scelgono di chiamarsi Moloko, come la bevanda a base di latte e anfetamine preferita da Alex in Arancia meccanica.



Sing it Back fa parte del secondo album dei Moloko, I am not a doctor del 1998. Il disco nel complesso non è una pietra miliare – come anche gli altri in realtà – e i due si caratterizzano come band dal singolo forte. Ma sanno bene come amalgamare elettronica, house e trip hop per creare prodotti dance di qualità e Róisín diventa sempre più brava. Tanto da mollare Mark come fidanzato e come partner artistico. Nel 2005 esordisce da solista con il raffinato, e non proprio commercialissimo, Ruby Blue. A distanza di 10 anni è arrivata al quarto album, Take Her Up To Monto, in uscita il prossimo luglio. Il primo singolo, bellissimo, è Ten Miles High e la regia del video è della stessa Róisín.



Se piacete alla gente che piace

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Siete al matrimonio di Tom Cruise e Katie Holmes al Castello Orsini Odescalchi di Bracciano. Avete tirato fuori il vestito buono di vent’anni fa e ripetete due mantra: quest’apnea non potrà durare per sempre e stanno messi peggio gli sbandieratori in abiti d’epoca. Mentre pensate con soddisfazione che Jennifer Lopez sia davvero una culona (identico compiacimento per uomini e donne) iniziate a studiare il modo di proporre questo rito breve di Scientology per il matrimonio di vostra sorella. Ma ecco che sta per fare il suo ingresso il dj: Mark Ronson. Ciuffato, faccetta a metà strada tra Kennedy e Pozzi di Happy Days, lui che fa? Si inciucca, mette su il tema di Top Gun e, soprattutto, toppa completamente la playlist infilandoci una canzone tristissima che parla della fine di una relazione. Un personaggio così ti credo che lo invitano sempre. D’altronde, con una coppia di genitori famosi per le loro feste londinesi, Mark non poteva che essere un patentato piacione. A merenda con Sean Lennon e la tisana dolce sonno con la figlia di Quincy Jones.


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Tocca riconoscere però che tra una campagna pubblicitaria per Tommy Hilfiger e una per Fendi, musicalmente ci ha saputo fare. Tra le cose fatte, una veramente giusta: ha prodotto Back to Black di Amy Winehouse. Il conto delle collaborazioni illustri di Mark si fa fatica a tenere ma il mio pallino torna spesso sulla sua raccolta di cover contenuta nell’album Version del 2007. Non che sia tra le sue performance più riuscite ma la – bizzarra – scelta degli originali dà spunti avvincenti. Per esempio, sempre una buona occasione per celebrare Toxic, capolavoro pop del 2003 di Britney Spears, suo maggior successo dopo la hit d’esordio Baby One More Time. Ronson ha stravolto l’effetto fiatone dell’originale e ci ha versato su Martini e R&B. Non ne esiste una versione video ma forse è meglio così, dubito che sarebbe stata in grado di eguagliare lo stile Alias di Britney.



Version propone quest’altra singolarità: Stop Me featuring il crooner australiano Daniel Merriweather, stravolgimento di Stop me if you think you’ve heard this one before degli Smiths precedente di esattamente 20 anni. L’originale ebbe diversi problemi a causa dei riferimenti agli omicidi di massa del testo e mi viene da pensare che la cover sia incappata nella stessa sorte. A me ha fatto l’effetto di una femen vestita. La rivisitazione fa acqua da tutte le parti e il video naufraga, soprattutto se si pensa a quello degli Smiths, dove Morrissey e i suoi compari ciclisti sfoggiano giovinezza e stile abbacinanti. Prevedibilmente la cover non ha ricevuto neanche il plauso da parte dei fan della band di Manchester ma si è piazzata molto bene nelle classifiche.



Ancora in scaletta aggiungo altre due operazioni da quest’album, strane ma non disdicevoli: The Only One I Know dei Charlatans, rifatta da Robbie Williams e Pretty Green dei Jam in versione Santogold.