Il synth pop di Young Turks e il genocidio del popolo armeno

Young Turks Rod Stewart, 1981

All’inizio di aprile 2021 l’etichetta discografica londinese Young Turks ha cambiato nome in Young. Dal 2005, anno in cui è stata creata da Caius Pawson, ne ha fatta di strada e nella sua scuderia può vantare artisti come The xx e Adele. Il cambio di nome è una questione di politically correct, come si evince dalle parole dello stesso fondatore in un post su IG. Quando l’ha creata non ha pensato di indagare sull’origine di questa espressione, adottata in un secondo momento per indicare genericamente atti di ribellione giovanili all’autorità. Avrebbe scoperto che si ispira al nome del gruppo di rivoluzionari che sovvertirono l’impero ottomano all’inizio degli anni venti del novecento e successivamente causarono il genocidio del popolo armeno, perpetrato durante la prima guerra mondiale.

Non si è preso la briga Pawson, all’epoca appena diciannovenne, ma non è venuto in mente neanche a Richard Russell, ai tempi già ai vertici della ben più nota XL Recordings, che in un primo momento aveva preso la Young sotto la sua ala protettrice. Vero è, come argomenta Pawson, che ottenere informazioni in rete nel 2005 non era un’operazione fulminea come ora. Ma resta il fatto che un nome è un biglietto da visita e forse prima di sceglierlo vale la pena di fare qualche ora di ricerca e un giro di telefonate per chiedere l’aiuto da casa. Pawson dichiara di essersi ispirato al pezzo Young Turks di Rod Sterward, dall’album del 1981 Tonight I’m yours. Una cosa davvero curiosa è che non viene mai citata l’espressione Young Turks nel testo di questa canzone, dove si parla invece di young hearts, nello specifico di una coppia di adolescenti che fanno una fuitina.

Il 24 aprile si è celebrato il 106esimo anniversario del genocidio armeno. Il presidente Biden ha colto l’occasione per riconoscere il genocidio, per la prima volta in via ufficiale nella storia degli Usa, proprio in un momento in cui i rapporti con la Turchia di Erdogan non sono esattamente rose e fiori. Sul sito della Comunità armena si può leggere una lista dei Paesi che hanno riconosciuto il genocidio.

Facendo dei salti un po’ azzardati tra vari episodi che recentemente stanno ridisegnando la cultura (tra gli ultimi, la Howard University di Washington che ha chiuso il Dipartimento di Studi Classici), si ha l’impressione che se da un lato stiamo raggiungendo nuovi e importanti traguardi in merito ai diritti civili, dall’altro stiamo rischiando che la cancel culture spazzi via anche la possibilità di analizzare il percorso complesso della storia. Un ulteriore colpo inferto allo spirito critico già notevolmente compromesso dall’attuale sistema di informazione mordi e fuggi. Quello spirito critico che magari avrebbe portato il giovane Caius a fermarsi un momento per riflettere sul nome da dare alla sua etichetta, a chiedersi ma che avevano fatto di tanto speciale quei giovani turchi? E con l’aiuto del quale non avrebbe fatto passare sedici anni per rendersi conto di avere fatto una scelta quanto meno affrettata, tanto da dover correre ai ripari (comunque apprezzabili) guarda caso nel momento in cui la cancel culture è diventata un hashtag.

Live a Milano – Febbraio 2020

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Consolato della Repubblica di Corea, Milano


Ryley Walker – Sabato 8, Germi

Dall’Illinois, tra Nick Drake e Tim Buckley, fragile e virtuoso


Devendra Banhart – Domenica 9, Teatro Dal Verme

Nato in Texas e cresciuto in Venezuela, al decimo album ispirato al Giappone e alla maternità, sempre più anacronisticamente hipster


Keiji Haino e Russell Haswell – Domenica 9, Pirelli Hangar Bicocca

Ipersperimentale, gratis, ma solo per possessori della Membership Card


Osmosi Trio – Lunedì 10, Gattò

Chitarra-basso-batteria, suoni da Albania-Grecia-Turchia, gratis


Big Thief – Domenica 23, Magnolia

Sempre meno indie e più americana, due album (su quattro) nel 2019, istintivi


Algiers – Giovedì 27, Ohibò

Anticapitalismo, electro-black, coinvolgenti nel suono e diretti nel messaggio

The Best Is Yet to Come 2018

 

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4 amici e una chitarra

 

A dieci giorni da Natale, ammalarsi è già un regalo. Sto in casa con quattro amici e una chitarra ad assemblare la playlist di fine anno 2018. Alcune scoperte e delle conferme, cose da ascoltare per dilatare il tempo e rallentare il ritmo. Certo manca il meglio ma quello, prima o poi, arriverà. Buon ascolto.



 

The Best is Yet to Come – Una playlist dal 2017

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17 x 17 x 1 ora e 7 minuti: una playlist di canzoni uscite nell’anno appena andato. Qualcosa di bello, perché invece il meglio deve ancora venire. A buoni intenditori poche parole…

 

Ragazze, facciamo la storia?

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Foto qui

Che sollievo, ogni tanto la ruota gira e anche per chi in genere non conosce i riflettori arriva il momento di vivere un quarto d’ora di gloria. Questa volta è andata bene per Tornareccio, un paese nella provincia di Chieti, in Abruzzo. Non ci speravo l’anno scorso quando scrivevo un articolo a proposito della Girls Rock Camp Alliance, una vibrante iniziativa nata negli Stati Uniti una decina di anni fa con l’intento di creare una rete di campi scuola musicali per ragazze. Alla base, l’idea che l’educazione musicale sia uno strumento per favorire l’autostima, la collaborazione e il coraggio in un momento tanto significativo e delicato della vita come gli anni tra i 10 e i 13, quando vorresti spaccare il mondo ma hai appena finito di imparare ad allacciarti le scarpe. Ebbene il campo finalmente si farà anche in Italia grazie all’intraprendenza di Hilary Binder, musicista e promotrice culturale di Washington DC che ha già fatto questa esperienza nella Repubblica Ceca e ha l’aria di sapersi muovere. Hilary è solare e visionaria e l’idea di una iniziativa di questo valore in un luogo dove in genere arrivano meno possibilità è entusiasmante. 

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Nella settimana del Lavinia Rock Camp (dal 3 all’8 luglio, durante il quale, in sintesi, le partecipanti impareranno le basi per formare una band, scrivere una canzone ed esibirsi) terrò un piccolo seminario sul giornalismo musicale femminile, di cui non si parla mai abbastanza. Forse anche perché di fatto c’è meno materia di cui parlare, essendo il mondo della scrittura critica musicale prevalentemente maschile e giusto un filo maschilista. E forse perché alla materia che c’è non viene dato lo spazio che meriterebbe. Ma non mi risulta che le donne siano scarse in quanto a caratteristiche essenziali per esercitare la critica o il giornalismo musicale: competenze, sensibilità, capacità comunicative, profondità di pensiero. Non sono una fanatica delle distinzioni di genere a tutti i costi, mi piacerebbe che il mondo fosse una palla morbida in cui ondeggiare al ritmo di di One Love, One Heart, ma come non prendere atto che le differenze esistono e allora ciò che di buono si può fare è esaltarle. Sono molto felice di fare parte di questa avventura.
Chiudo con le parole giustissime usate da Daniele Cassandro in un articolo per Internazionale sulla giornalista inglese Sylvia Patterson e in generale sulla scrittura delle donne in ambito musicale.

Ogni autrice ha la sua storia, la sua età, la sua cultura e il suo stile ma in comune vedo alcuni elementi di base. La liberatoria assenza di quella pedanteria enciclopedica che rende sgradevole buona parte del classico giornalismo musicale. E poi una capacità di far entrare nella loro scrittura il dato autobiografico, l’aneddoto personale, in certi casi anche una forma di lessico privato, senza mai cadere nell’irrilevanza e mantenendo salda una lucida visione d’insieme.
Le iscrizioni al Lavinia Rock Camp sono ancora aperte, tutte le informazioni le trovate qui, non perdete l’occasione di segnalare questa possibilità a qualche giovane rocker che vuole spaccare il mondo divertendosi.

The Best is Yet to Come – Una playlist dal 2016

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Non tutto il 2016 è arrivato per nuocere. Ho assemblato una selezione di canzoni uscite quest’anno alle quali ho pensato come modesto antidoto al lato oscuro degli ultimi mesi, per non dimenticare mai di restare con i piedi per terra ma la testa tra le nuvole.

L’ho provata in situazioni varie: in casa cucinando, facendo il bagno con le bolle, fissando il muro in cerca di risposte e fuori in giro in bici quando non avevo fretta. Credo che funzionerà anche durante il viaggio in treno per andare dai miei a Natale. Ci sono alcune delle cose buone che ho ascoltato nel 2016 ma che non sono per forza le migliori in assoluto e non sono tutte (per esempio ho lasciato fuori molti ‘grandi’ o la musica italiana, che quest’anno è stata particolarmente generosa). Le tracce sono 24 come il giorno della vigilia, perché ‘il meglio deve ancora venire’. A buoni intenditori poche parole… Buon ascolto.

 

Generazione ‘una via di mezzo tra’

Da qualche tempo ho l’impressione di avere saltato a piè pari la fase della maturità e di essere piombata nell’antiquariato. Mi è venuto il sospetto quando ho iniziato a soffermarmi sull’espressione una via di mezzo tra. Me ne servo fluidamente io per prima, mi sguscia fuori senza filtri specie quando parlo di musicisti: Kutiman è una via di mezzo tra Black Keys e Alabama Shake. I Suuns sono una via di mezzo tra Radiohead e Battles. Gli Haelos sono una via di mezzo tra Portishead e XX. Ryley Walker è una via di mezzo tra John Martyn e Geoff Farina. Ma cosa vorrà dire questa tendenza al funambolismo, sarà un bene o un male?

Quando l’anno scorso, il 2015, la ventennale webzine indipendente americana Pitchfork è stata comprata dal gruppo editoriale Condé Nast io mi sono francamente accorata. La consideravo un simbolo, una delle manifestazioni più significative della generazione Lo-Fi , figlia della filosofia punk del Do It Yourself, cioè ‘fattelo da solo’. Un po’ per mancanza di fondi un po’ perché così sarà sicuramente come vuoi senza necessariamente rispondere alle logiche del mercato di massa. Ecco qui, ho pensato, anche questi si sono messi in mezzo tra. Non sono né una fan accanita né tantomeno della prima ora di Pitchfork ma negli anni l’ho consultata parecchio nelle sue sezioni Best New Music e Reviews. Mi è capitato di riconoscermi nelle sue scelte o di trovarle esagerate o ingiustificate. Alla notizia della vendita, però, ho sentito il brivido del passaggio di epoche. Quella dimensione sgangherata e appassionata del ciclostilato 2.0 stava cedendo il passo al mutuo da pagare. Per inciso, continuo a fare le mie consultazioni delle stesse sezioni pitchforkiane ma mi mancano quelle scelte ingiustificate, quei giudizi galvanizzati che erano un po’ piezz’e core. Sono ancora affetta dall’idea che la musica si scelga con la pancia prima ancora che facendo la media delle stellette assegnate dalle recensioni o seguendo gli algoritmi.

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Quest’anno poi, il 2016, si è aggiunto un altro tassello al compromesso storico della cultura indipendente: la catena californiana Amoeba Music ha venduto il negozio di dischi di Hollywood su Sunset Boulevard a un mega gruppo immobiliare intenzionato a costruirci una torre di vetro. Su twitter, la squadra di Ameoba ha comunicato al suo pubblico che ci vorrà qualche anno prima che la sostituzione abbia effettivamente luogo e tra l’altro sembra che il progetto della torre con tanto di piscina sul tetto (si può trovare in rete) sia solo una delle ipotesi per la riconversione dell’edificio. Personalmente ho pensato che Joni Mitchell avrebbe esclamato Don’t it always seem to go that you don’t know what you’ve got till it’s goneThey paved paradise and put up a parking lot, come fece in Big Yellow Taxi, una delle più belle canzoni ecologiste della storia.


Kutiman – She’s a Revolution


Suuns – Translate


Haelos – Dust


Ryley Walker – Primrose Green