
Kahimi Karie by Colin Lane
Non è possibile che non abbiate mai avuto un inciucio romano. Una treschetta, un amichetto, un appuntamento di lavoro finito di fronte a una cacio e pepe. Sono una romana emigrata a Milano con un po’ di puzza sotto al naso ma mica faccio sul serio. Mi basta Gabriella Ferri che in Fiori Tresteverini stornella Semo signori senza quatrini / Er core nostro è na capanna / Core sincero che nun te inganna e in un attimo ho i lucciconi.
Per una volta vorrei guardare Roma con gli occhi di uno straniero. Presente il romanzo Storia d’amore vera e supertriste di Gary Shteyngart? Dentro succede uno degli incontri più malinconici che abbia mai letto. La notte prima di lasciare Roma, l’ultimo dei romantici Lenny Abramov, americano ebreo di origini russe che si ostina a leggere libri di carta in un mondo ipertecnologico, conosce la giovane coreana Eunice Park, figlia di un podologo e nata per chattare. Tra decadenza, dolce vita e shopping online lo scenario è struggente. Da un lato la romanità eterna e fagocitante dall’altro la vitalità fluida da ragazzina di un anime.
Lo Shibuya kei mi fa pensare a quel sapore agrodolce dell’inconciliabile. Cibo Matto, Pizzicato Five e Buffalo Daughter per intenderci. Fiore all’occhiello del J-pop, è un stile musicale nato negli anni ’90 il cui nome deriva dall’omonimo quartiere di Tokyo, epicentro di creatività e piacionaggine locali. Qui si contaminavano arte, tendenze e musica, alla maniera indie dei nostri tempi. L’ispirazione proveniva dalla cultura occidentale delle colonne sonore italiane, della bossanova, delle sonorità yéyé francesi e del pop rock americano degli anni ’60.
Kahimi Karie ne è una delle rappresentanti più centrate. Minuta ed eterea, esile come un rametto di ciliegio, la sua interpretazione di Una giapponese a Roma ha una sensualità pari al bagno di Anita Ekberg nella fontana di Trevi. Una che in quella sua hit nota in Italia per essere stata un tormentone del Ruggito del Coniglio su Radio 2, può permettersi di sussurrare dolcemente Cazzo di Dio santa Madonna (lo dice eccome, ascoltate bene) che neanche er Monnezza avrebbe osato tanto. Il genere è quello sporcaccione alla Jane Birkin, disinibito e provocatorio.
I suoi primi lavori furono prodotti dall’allora fidanzato Cornelius, stella dell’elettropop nipponico con il pallino del Pianeta delle scimmie, il film del ’68 dal cui personaggio-scimpanzé prende il nome (e su cui ha voluto creare la linea di abiti A Bathing Ape). Il Beck giapponese, dicono molti. Ha collezionato suggestioni in giro per il mondo e le ha mescolate con le sue brillanti intuizioni. A me fa l’effetto del pifferaio magico, se attacco ad ascoltare Sensuous mi passano gli stimoli corporei. E non è che l’ultimo l’album. Ha esordito nel duo Flipper’s Guitar dall’identità mediamente indefinibile ma con chiare influenze dall’avanguardia del britpop degli ’80 (più o meno tra Style Council ed Everything but the Girl). Poi si è lanciato nella carriera da solista e dj realizzando per la sua etichetta Trattoria album di notevole bellezza come Fantasma (1997) e Point (2001), distribuiti negli Stati Uniti dalla Matador.
A un certo punto di questo découpage culturale, però, ci si sente un po’ intrappolati nel solito stereotipo, sushi e mandolino. Allora mi aggrappo alle dichiarazioni dello stesso, diabolico, Cornelius, in un articolo dell’Herald Sctoland scritto da Momus – quel Momus, musicista e blogger autore di Una giapponese a Roma: tutto questo copia e incolla ruota attorno al concetto di ton-chi di derivazione buddista, secondo lui. In pratica, lo Shibuya kei sarebbe lo sguardo sulle cose da una prospettiva completamente nuova, la possibilità di dare risposte diverse alla stessa domanda. Insomma, Trastevere goes zen.