Generazione ‘una via di mezzo tra’

Da qualche tempo ho l’impressione di avere saltato a piè pari la fase della maturità e di essere piombata nell’antiquariato. Mi è venuto il sospetto quando ho iniziato a soffermarmi sull’espressione una via di mezzo tra. Me ne servo fluidamente io per prima, mi sguscia fuori senza filtri specie quando parlo di musicisti: Kutiman è una via di mezzo tra Black Keys e Alabama Shake. I Suuns sono una via di mezzo tra Radiohead e Battles. Gli Haelos sono una via di mezzo tra Portishead e XX. Ryley Walker è una via di mezzo tra John Martyn e Geoff Farina. Ma cosa vorrà dire questa tendenza al funambolismo, sarà un bene o un male?

Quando l’anno scorso, il 2015, la ventennale webzine indipendente americana Pitchfork è stata comprata dal gruppo editoriale Condé Nast io mi sono francamente accorata. La consideravo un simbolo, una delle manifestazioni più significative della generazione Lo-Fi , figlia della filosofia punk del Do It Yourself, cioè ‘fattelo da solo’. Un po’ per mancanza di fondi un po’ perché così sarà sicuramente come vuoi senza necessariamente rispondere alle logiche del mercato di massa. Ecco qui, ho pensato, anche questi si sono messi in mezzo tra. Non sono né una fan accanita né tantomeno della prima ora di Pitchfork ma negli anni l’ho consultata parecchio nelle sue sezioni Best New Music e Reviews. Mi è capitato di riconoscermi nelle sue scelte o di trovarle esagerate o ingiustificate. Alla notizia della vendita, però, ho sentito il brivido del passaggio di epoche. Quella dimensione sgangherata e appassionata del ciclostilato 2.0 stava cedendo il passo al mutuo da pagare. Per inciso, continuo a fare le mie consultazioni delle stesse sezioni pitchforkiane ma mi mancano quelle scelte ingiustificate, quei giudizi galvanizzati che erano un po’ piezz’e core. Sono ancora affetta dall’idea che la musica si scelga con la pancia prima ancora che facendo la media delle stellette assegnate dalle recensioni o seguendo gli algoritmi.

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Quest’anno poi, il 2016, si è aggiunto un altro tassello al compromesso storico della cultura indipendente: la catena californiana Amoeba Music ha venduto il negozio di dischi di Hollywood su Sunset Boulevard a un mega gruppo immobiliare intenzionato a costruirci una torre di vetro. Su twitter, la squadra di Ameoba ha comunicato al suo pubblico che ci vorrà qualche anno prima che la sostituzione abbia effettivamente luogo e tra l’altro sembra che il progetto della torre con tanto di piscina sul tetto (si può trovare in rete) sia solo una delle ipotesi per la riconversione dell’edificio. Personalmente ho pensato che Joni Mitchell avrebbe esclamato Don’t it always seem to go that you don’t know what you’ve got till it’s goneThey paved paradise and put up a parking lot, come fece in Big Yellow Taxi, una delle più belle canzoni ecologiste della storia.


Kutiman – She’s a Revolution


Suuns – Translate


Haelos – Dust


Ryley Walker – Primrose Green

Ascolta, pensa, (forse) scrivi

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In questa lunga estate calda, tra giugno e luglio, ho tenuto un seminario di ben dodici ore al Master di Musica della Luiss Business School di Roma. L’argomento aveva più o meno a che fare con quello che mi accanisco a fare spesso, scrivere di musica in rete. Mentre lo facevo, a volte mi è balenato in mente Antoine quando negli anni sessanta cantava: Tu sei buono e ti tirano le pietre / Sei cattivo e ti tirano le pietre / Qualunque cosa fai, ovunque te ne vai sempre pietre in faccia prenderai…  Ma stando esattamente così le cose, non vale dunque la pena di fare quello che ci pare?
Non so se questo laboratorio sia stato davvero utile o interessante per gli studenti che l’hanno frequentato ma posso dire di esserne uscita 1) viva e soddisfatta e 2) sempre più convinta che non ci si debba per forza affidare ciecamente a quello che fanno gli altri. La scelta che fa la differenza è, spesso, la propria.
Ho provato empatia per i ragazzi da subito, cioè dall’istante in cui mi hanno lanciato sguardi sgranati probabilmente pensando che non sarebbero tornati mai più. In effetti qualcuno si è presto dissolto. E chi è rimasto credo abbia continuato a chiedersi: di cosa sta parlando questa? Per fortuna ho avuto la discreta idea di far dire tante cose – belle – più a loro che a me.
Ma un paio di concetti li ho tentati anche io e sono felice quando ho l’occasione di tirarli nuovamente fuori.
Uno è che la musica si può raccontare, sfidando la mitica affermazione pluriattribuita (a Frank Zappa, Elvis Costello, Thelonious Monk e altri ancora) secondo cui parlare di musica è come ballare di architettura. Penso invece che se ne possa parlare sensatamente, come di un’emozione, di un’idea, di una storia, di un ingranaggio. Con i limiti del caso ma anche con tutti i frizzi e lazzi che quei limiti ci portano ad attivare, se vogliamo centrare il punto ed essere considerati da chi ascolta o legge.
Un altro è che non dobbiamo parlarne a tutti i costi. Se ci viene il dubbio di non avere niente da dire, il silenzio sarà una melodia potentissima. Potrebbe capitarci di avere l’impulso incontenibile di recensire chiunque, anche il vicino che canta sotto la doccia. Allora perché no, nessuno ce lo impedisce, buttiamo pure giù qualche riga. Poi però non sarebbe male lasciare quelle riflessioni a decantare un po’ prima di diffonderle. E una volta rilette, il resto verrà da sé. Si spera.
Queste sono 6 canzoni di artisti che ci siamo raccontati in aula e se non sbaglio proprio in quest’ordine. Ascolta di qua e decostruisci di là, grazie alle cose che ci siamo detti ai miei occhi si sono accese di una luce nuova.

Bring the Noize – M.I.A.


Pedestrian at Best – Courtney Barnett


Mizu – Nippon Eldorado Kabarett


Wake Up – Arcade Fire


Avvelenata – Francesco Guccini


Bring the Noise – Public Enemy