Musica + Libri #5 – “Aretha Franklin. La Regina del Soul” di Gabriele Antonucci

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Gabriele Antonucci, “Aretha Franklin. La Regina del Soul” , Vololibero Edizioni, 2016


È agile e incalzante questo piccolo libro sulla gigantesca Aretha Franklin, regina del soul e paladina dei diritti civili che ha rivoluzionato il mondo del gospel. Un talento unico che ha graffiato la vita con la voce, trasformando il dolore in arte, perennemente in bilico tra successi ed esaurimenti nervosi, eccessi e sopravvivenza. Gabriele Antonucci, giornalista e critico musicale, srotola una narrazione in pillole che racconta pubblico e privato in un unico intreccio di emozioni ed episodi memorabili. Nonostante talvolta il ritmo subisca un’accelerazione che comprime la successione degli eventi, il godimento della lettura è assicurato.

La carrellata biografica è serrata, sin dall’esordio sulle scene guidato dal padre, il carismatico reverendo C.L. Franklin, figura di riferimento dei movimenti di lotta per i diritti al fianco di Martin Luther King e pioniere della contaminazione tra gospel e blues. Esibendosi durante le funzioni religiose del reverendo, Aretha inizia a ricevere i primi consensi del pubblico, formato, tra gli altri, da personaggi tutt’altro che trascurabili come Ella Fitzgerald, Duke Ellington e Sam Cooke. Da allora, Aretha viene catapultata nel “music business”, passando per le più prestigiose etichette musicali e da un manager all’altro. Quando nel 1972 dà alle stampe l’album Amazing Grace, Aretha è una celebrità appena trentenne che ne ha già viste di tutti i colori. “Ciò che Kind of Blue di Miles Davis rappresentò per il jazz, Amazing Grace lo fu per il gospel.” commenta Antonucci. Le registrazioni del disco nella New Temple Baptist Missionary Church di Los Angeles sono diventate un film diretto da Sidney Pollack, un documento impressionante di uno dei momenti più brillanti della carriera di Aretha.



Tra disgrazie personali e trionfi pubblici, insicurezze e fobie, Antonucci illustra come Aretha Franklin abbia attraversato più di mezzo secolo di storia della musica sperimentando dal jazz all’r&b e arrivando a scalare, seppur con qualche malumore, le classifiche pop. Fino a una delle ultime apparizioni pubbliche, nel 2015, che riassume bene la traccia indelebile che questa artista pazzesca ha impresso nel firmamento musicale. Quando durante i Kennedy Center Honors, di fronte a un’esibizione da brividi di A Natural Woman, tra il gesto del presidente Obama di asciugarsi una lacrima e l’incontenibile entusiasmo della sala, l’etichetta di una serata istituzionale andava a farsi benedire. God bless Aretha.  


Se piacete alla gente che piace

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Siete al matrimonio di Tom Cruise e Katie Holmes al Castello Orsini Odescalchi di Bracciano. Avete tirato fuori il vestito buono di vent’anni fa e ripetete due mantra: quest’apnea non potrà durare per sempre e stanno messi peggio gli sbandieratori in abiti d’epoca. Mentre pensate con soddisfazione che Jennifer Lopez sia davvero una culona (identico compiacimento per uomini e donne) iniziate a studiare il modo di proporre questo rito breve di Scientology per il matrimonio di vostra sorella. Ma ecco che sta per fare il suo ingresso il dj: Mark Ronson. Ciuffato, faccetta a metà strada tra Kennedy e Pozzi di Happy Days, lui che fa? Si inciucca, mette su il tema di Top Gun e, soprattutto, toppa completamente la playlist infilandoci una canzone tristissima che parla della fine di una relazione. Un personaggio così ti credo che lo invitano sempre. D’altronde, con una coppia di genitori famosi per le loro feste londinesi, Mark non poteva che essere un patentato piacione. A merenda con Sean Lennon e la tisana dolce sonno con la figlia di Quincy Jones.


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Tocca riconoscere però che tra una campagna pubblicitaria per Tommy Hilfiger e una per Fendi, musicalmente ci ha saputo fare. Tra le cose fatte, una veramente giusta: ha prodotto Back to Black di Amy Winehouse. Il conto delle collaborazioni illustri di Mark si fa fatica a tenere ma il mio pallino torna spesso sulla sua raccolta di cover contenuta nell’album Version del 2007. Non che sia tra le sue performance più riuscite ma la – bizzarra – scelta degli originali dà spunti avvincenti. Per esempio, sempre una buona occasione per celebrare Toxic, capolavoro pop del 2003 di Britney Spears, suo maggior successo dopo la hit d’esordio Baby One More Time. Ronson ha stravolto l’effetto fiatone dell’originale e ci ha versato su Martini e R&B. Non ne esiste una versione video ma forse è meglio così, dubito che sarebbe stata in grado di eguagliare lo stile Alias di Britney.



Version propone quest’altra singolarità: Stop Me featuring il crooner australiano Daniel Merriweather, stravolgimento di Stop me if you think you’ve heard this one before degli Smiths precedente di esattamente 20 anni. L’originale ebbe diversi problemi a causa dei riferimenti agli omicidi di massa del testo e mi viene da pensare che la cover sia incappata nella stessa sorte. A me ha fatto l’effetto di una femen vestita. La rivisitazione fa acqua da tutte le parti e il video naufraga, soprattutto se si pensa a quello degli Smiths, dove Morrissey e i suoi compari ciclisti sfoggiano giovinezza e stile abbacinanti. Prevedibilmente la cover non ha ricevuto neanche il plauso da parte dei fan della band di Manchester ma si è piazzata molto bene nelle classifiche.



Ancora in scaletta aggiungo altre due operazioni da quest’album, strane ma non disdicevoli: The Only One I Know dei Charlatans, rifatta da Robbie Williams e Pretty Green dei Jam in versione Santogold.