Cose che capitano quando si sceglie di scegliere, nella selezione dei 6 purtroppo mi capita spesso di lasciare fuori dei concerti interessanti. Questo mese è toccato a Sleaford Mods, Sabato 27 in Santeria Social Club, che spero di non mancare.
Di cosa stiamo a parlà, la storia del garage rock, Some folks like water / Some folks like wine / But I like the taste / Of straight strychnine (hey hey)
Alle 19.45 di un venerdì l’ascensore dell’ufficio puzza di mandarino per colpa tua. Mentre sei in discesa libera verso la vita vera ecco una fermata improvvisa, le porte si aprono e sulle note dei santi che stai elencando entra il viscidone del settimo piano, quello che è sufficiente che tu non sia uno scaldabagno. Con lo sguardo scorri il gessato dall’alto in giù fino ai mocassini mosci. Ma come ti sei ridotta? Ha qualcosa di quell’amico dei tuoi della casa al mare di vent’anni fa, quello del golfino salmone sulle spalle. In mezzo a una carrellata di banalità a un certo punto infila un “facciamo un pezzo di strada insieme?”. Preghi di non incrociare anima viva sul tragitto e in un attimo sei già carne da ribaltabile (per lui ancora attualissimi). Se ci fosse la filodiffusione nel mondo a questo punto partirebbe Let’s stick together di Bryan Ferry, l’unica stella del firmamento dandy all’altezza di un colpaccio da pianobar. Che resti qui, nell’attraversamento di questi sette piani: a te quel vermone piace.
Let’s stick together nasce però con una allure più castigata rispetto alle sue vite successive, passando più o meno dallo status di inno celebrativo del sacro vincolo del matrimonio a manifesto del primo maggio. Appare per la prima volta nel ’62 nella versione del bluesman Wilbert Harrison, con scarsissimo successo di classifica. Il testo, in realtà lo stesso usato poi da Ferry nel 1976, parlava di “doveri coniugali” con un risvolto patetico che chiamava in causa i figli e il loro “bene” You know we made a vow / To leave one another never / Now if you’re stuck for a while consider our child / How can it be happy without its ma and pa.
Una manciata di anni più tardi, nel 1969, qualcuno nell’entourage di Harrison deve avere pensato che ci si poteva riprovare proponendo un testo rivisitato con un messaggio più paragnosta. Il mondo stava cambiando e la strategia vincente si rivelò quella di cavalcare l’onda delle rivoluzioni culturali all’insegna di ideali comunitari. Di questa rinnovata chiave di lettura ne approfittarono anche i californiani Canned Heat con la loro versione blues-rock che divenne una hit della stagione. Con l’esortazione Lavoriamo insieme si faceva riferimento davvero a braccia da rubare ai campi, alla condivisione di valori, all’unione (morale) che fa la forza.
Quando poi nel 1976 fu la volta dello sparviero Bryan invece era ormai tempo degli ammiccamenti del glam rock. Qualcuno del suo entourage deve aver pensato di ripristinare il testo originale che puntava sull’intesa di coppia e di dare spazio a un sassofono invece che a chitarre e armoniche, più in linea con i tempi. Nel video della canzone Ferry interpretava i panni dello sposino mandrillone assieme a una felina Jerry Hall, all’epoca sua compagna. L’aveva incontrata per lo shooting dell’album Siren dei Roxy Music. Ma non durò molto, giusto il tempo di far arrivare Mick Jagger che invece i doveri coniugali li ha potuti rivendicare davvero per una decina d’anni.
Milano secerne bei concerti come non mai e bisogna anche darsi una mossa a comprare i biglietti. Ma nonostante qualche sold out di troppo, la lista di serate disponibili è ancora ben nutrita. Ecco la solita selezione di sei. Ci vediamo in giro.
Ho il sogno che un bel giorno mi si palesi uno che dica ‘Ciao, io sono uno normale. Normale… diciamo uno come te’. Ciò che mi dà speranza è sapere che Jonathan Richman ha fatto davvero una cosa simile. Nel mezzo degli anni settanta, tra fattoni capelloni, lui si presentava pulito e precisino dalla tizia che gli piaceva e con un sorriso totalmente fuori luogo le diceva Lascia stare quel fricchettone di Johnny e scegli me che non mi faccio neanche di camomilla. Aveva i modi goffi da nerd ed era in anticipo sulla filosofia straight edge, sulle tendenze lo-fi che si sarebbero diffuse un paio di decenni più tardi da perdente alla Beck o ancora più in là dell’ingenuità da porta accanto di Jens Lekman.
Ovviamente la sfiga vera dalle parti di Richman non si vedeva neanche con il cannocchiale. C’erano invece ironia e leggerezza e una visionarietà acuta che il fondatore dei Modern Lovers ha avuto sin dagli esordi e si è portato dietro nella carriera da solista. I’m Straight si trova nel primo album omonimo dei Modern, nato come una raccolta di demo registrati nel 1972 e uscito poi nel 1976. La produzione di John Cale si sente. Richman, che allora era un pischello 21enne che scoppiava di salute, aveva consumato la musica dei Velvet Underground e ne sbandierava l’influenza ma con la ragguardevole differenza che il suo mondo era a colori e non in un claustrofobico bianco e nero. Più simile a Mirko dei Bee Hive in Kiss me Licia, che a Lou Reed. Roadrunner è una dichiarazione d’amore per la vita: I’m in love with the modern world.
Canzone dopo canzone l’album delinea il profilo del punk a modo e romantico, il rocker gentiluomo, desiderio del 50 per cento delle femmine del pianeta (l’altro 50 forse acchiappa ciò che capita). Gli amanti moderni secondo i Modern Lovers non si prendono sul serio, ridono quando c’è da ridere piangono quando c’è da piangere e ti dicono quello che pensano, rischiando di sembrare idioti. I go to bakeries all day long / There is a lackness of sweetness in my life. Perché gli amanti moderni non usano i filtri e mangiano per davvero.
Catherine Deneuve e Françoise Dorleac, Les demoiselles de Rochefort. Foto qui
Non è servito a molto guardare La La Land, anzi: continuo a non farmi una ragione del successo dei musical. Evito i dettagli per non litigare con nessuno, ma preferisco ricordare Ryan Gosling avviluppato nello scorpione di Drive o per la sua prova dell’impagliato nella sedia di Jane Fonda sul set di Grace e Frankie. Nonostante i miei sentimenti controversi verso il genere – che so per certo essere condivisi da molti – non posso però fare a meno di cedere ad alcune colonne sonore tratte da musical. Ecco una selezione di 6 canzoni tratte da queste eccezioni. Fuoriserie esclusi, come l’epica cover della canzone di Solomon Burke Everybody needs somebody to love interpretata da John Belushi e Dan Aykroyd in The Blues Brothers di John Landis (che di capolavori ne ha generati diversi, da Animal House al video di Thriller di Michael Jackson).
Bjork, I’Ve Seen It All – Dancer in the Dark
Il film di Lars von Trier è una mazzata senza scappatoie, lo era quando è uscito nel 2000 e lo è ancora riguardandolo oggi. Una tecnica per andare avanti nella visione è la costante estraniazione: non sta succedendo davvero, è solo finzione. Per fortuna c’è Catherine Deneuve. La sua figura è di sostegno a Selma/Bjork e a noi perché con il suo proverbiale charme controbilancia la disperazione del film come una colazione continentale alle undici del sabato mattina dopo una settimana stretti nella morsa del caffè al volo.
Poi c’è la colonna sonora industrial-swing di Bjork, bellissima. Sull’album SelmaSongs, I’ve seen it all è cantata in coppia con Thom Yorke.
Ballady I Romanse, Przyszlam do miasta – The Lure
Il musical horror polacco del 2015 Córki Dancingu (The Lure per il pubblico internazionale), presentato e premiato al Sundance 2016, è flippante. Primo lungometraggio di Agnieszka Smoczyńska, ha come protagoniste due sorelle sirene che diventano le coriste di una band che si esibisce in un dancing un filo kitsch, come credo fossero tutti i dancing di Varsavia degli anni ottanta. Anche la colonna sonora ha come protagoniste due sorelle, Zuzanna e Barbara Wrońska, in arte le Ballady I Romanse. Le loro canzoni eurodance a metà strada tra Robyn e Alexia, sono elementi cardine del film e in quel contesto trash sono magnetiche come canti di sirene. Il disegno della copertina dell’albumCórki Dancingu è della regista Smoczyńska.
Mina, Nessuno – Urlatori alla sbarra
Non posso dimenticare la prima volta che da ragazzina ho visto la scena di Chet Baker che dormiva abbracciato alla tromba nella vasca da bagno mentre Mina dimenava caschetto e fianchi. Ho pensato fosse il massimo della trasgressione e ho sperato di passare anche io le mie serate da grande in mezzo a musicisti scapigliati. A ripensarci ora che si trattava di un musicarello… Il film è del 1960 per la regia di Lucio Fulci, un outsider difficile inquadrare in un solo genere, tra l’altro autore di testi di canzoni come 24 mila baci.
Michel Legrand, Les rencontres – Les demoiselles de Rochefort
Sono rimasta affascinata da Michel Legrand quando l’ho visto – e sentito – in Cleo de 5 à 7, il secondo lungometraggio di Agnès Varda incentrato su due ore di vita della cantante Cleo. La sua musica sprigiona una vitalità travolgente, sia sulle note felici sia su quelle stracciacuore. Ha composto principalmente per il cinema, dal classico della nouvelle vague Bande à part allo standard del musical Les demoiselles de Rochefort di Jacques Demy, la cui colonna sonora fu nominata all’Oscar nel 1967. E poi nel cast c’è pure il re del musical Gene Kelly.
Skid Row– La piccola bottega degli orrori
Frank Oz è il burattinaio che sta dietro a Miss Piggy dei Muppet ed è la voce di Yoda in Guerre Stellari. Ha diretto anche diversi film, come The Little Shop of Horrors nel 1986, commedia rock tratta dall’omonimo musical teatrale di Broadway, a sua volta basata sul film del 1960. La musica composta da Alan Menken è perfettamente in stile sixties con incursioni Motown. I personaggi principali sono il giovane fiorista nerd Seymour e la sua pianta carnivora Audrey II e nel cast ci sono anche Steve Martin e Bill Murray. Adorabile.
George Benson, On Broadway – All that Jazz di Bob Fosse
Nel 1980 All That Jazz di Bob Fosse ha incassato una manciata di Oscar tra cui quello per la colonna sonora a Ralph Burns (che si era già portato a casa la statuetta nel 1973 per Cabaret). La scena iniziale sulle note di On Broadway è giustamente un gran classico. La canzone è del ’63 ma la versione di Benson del 1979 l’ha resa un successo commerciale. Parla della determinazione di un chitarrista che vuole a tutti i costi sfondare a Broadway nonostante si stia rendendo conto che la sòla è dietro l’angolo.
Chi l’avrebbe mai detto che nel 2016 la vita avrebbe tenuto in serbo per noi l’apericena, il momento della fusione a perdere di due concetti già belli e completi nella loro individualità: l’aperitivo prima e la cena dopo. Sarà che abbiamo fatto tutto e siamo nell’era dei post, non ci restano che nuove, raccapriccianti, combo. Ma spesso è proprio all’apericena che può essere reperibile un certo tipo di esemplare piacione moderno. Ci vuole far credere di essere stato trascinato, infatti lui ha altri mille eventi molto meglio, però, già che c’è, arraffa nachos e insalata di farro e ammicca pure alle gambe del tavolo. Intanto voi, che sul serio siete stati portati di peso in quel locale, assistete alla scena scivolando nell’evidenza: non esistono più i piacioni di una volta. E peggio ancora, non esiste più neanche il sottofondo musicale all’altezza. Passi il farro, ma sopravviverete alremix buddha bar del best of Mengoni?
Invece, quando una trentina di anni fa si faceva sul serio, e si andava in discoteca o al pianobar, il piacione alfa esisteva davvero. Si chiamava Giuseppe Chierchia, alias Pino D’Angiò, made in Pompei. Nei primi anni ottanta viene buttato sul palco in camicia sbottonata su pelo increspato e sigaretta accesa tra le dita. Ha il riccetto malandrino e canta un rap mandrillo dal titolo Ma quale idea, il cui incipit L’ho beccata in discoteca con lo sguardo da serpente / Io mi sono avvicinato lei già non capiva niente è manifesto programmatico. Cronaca di un rimorchio, in sostanza. Riassumendo: lui la aggancia in discoteca, la raggira a squalo e com’è come non è, riesce a portarsela a casa. Ma quando, ingrifatissimo, arriva al dunque, un coro greco che anticipa la tragedia imminente gli fa lo spiegone: ué Pino sveglia, lei non ci sta. Secondo noi se continui a ballare è meglio.
Anche se la serata va in bianco, il disco diventa un successo internazionale che vende ben dodici milioni di copie nel mondo. Pino è disinvolto e brillante, è uno che nelle interviste scandisce il tempo schioccando le dita, è maestro di acchiappo. A scanso di equivoci il lato B del singolo viene chiamato Lezioni d’amore. La sua fama di cantautore piacione arriva fino a Mina, per la quale qualche anno più tardi si cimenta nell’abbordo da supermercato scrivendo la canzone Ma chi è quello lì, il cui video vanta una strepitosa partecipazione di Monica Vitti. Poi, nel 2005 è il gruppo hip hop romano Flaminio Maphia a omaggiarlo reinterpretando Ma quale idea in chiave disco-romanesca, con il titolo abbreviato in Che idea.
Nonostante questi attestati di stima, forse non è ancora stato fatto abbastanza in patria per rendere merito a tanto patrimonio nostrano. Perché magari in Italia Pino non l’abbiamo capito davvero, mentre all’estero Ma quale idea è entrata a fare parte dell’olimpo delle hit funk, quando nel 2003 è stata inserita nel DVDWorld Tribute to the Funk, compendio enciclopedico della Sony Music. Ora però, proprio in questo 2016 che quell’esordio folgorante compie 35 anni, e che Pino ha appena pubblicato un nuovo album – Dagli Italiani a Beethoven – sarà il caso di rimediare. Più che un suggerimento è un imperativo: Balla!